Dicono che sarà una battaglia all’ultimo voto ma vai a fidarti dei sondaggi, e comunque chiunque vinca sarà stata una bella battaglia, questa d’Abruzzo, regione dove il predominio della destra era scontatissimo fino a un mese fa. È accaduto però che è tornata contendibile dopo il voto della Sardegna che ha caricato moralmente Elly Schlein e tutta la truppa allargata: hanno fatto una buona campagna e trovato un candidato serio, Luciano D’Amico. Basterà? C’è da chiedersi – ma lo sapremo solo domenica notte –se il centrosinistra, o meglio: le opposizioni unite – siano preda di un effetto ottico, di una grande illusione, quella della «spallata», del «vento è cambiato», salvo poi magari scoprire che la strada è più lunga, così che l’Abruzzo l’hanno dipinta come la California d’Italia o la Bastiglia caduta. Dimenticando che questa è terra dura da prendere a un avversario in sella come la destra.
Elly Schlein (con Conte) una volta tanto ha vinto grazie a Alessandra Todde – ottima, infatti non sembra una contiana – e malgrado l’inciampo del vecchio Soru ma soprattutto grazie a una diavoleria del sistema elettorale che in Sardegna c’era e in Abruzzo no, quel voto disgiunto che dà la possibilità di votare un partito e insieme il candidato governatore dell’altra coalizione: il grimaldello che ha scassato la compattezza del centrodestra sardo. Invece tra le montagne, i paesini e i centri urbani, tra la neve e il mare dell’Abruzzo chi vota a destra vota automaticamente Marco Marsilio, l’ex ragazzo di Colle Oppio, ed è a maggior ragione apprezzabile lo sforzo di Schlein nell’inerpicarsi in zone a lei sconosciute portando la speranza di vincere in una condizione di partenza di forte inferiorità.
Spera, il Pd, di azzeccarla per la seconda volta su due, e sarebbe un bis che varrebbe doppio come le partite di calcio in trasferta, e la segretaria ne ha bisogno per tenere alto il morale di una truppa che resta politicamente in affanno, slabbrata, e nell’animo frustrata da troppe batoste. Ma dall’altra parte c’è una squadra che improvvisamente ha paura e che però ha un’arma mille volte più forte dell’entusiasmo di Elly, dell’umorismo militante di Pier Luigi Bersani, delle furbizie di Conte, dei tecnicismi di Carlo Calenda: il potere.
Quello abruzzese del governatore uscente e soprattutto quello romano spiattellato da ministri e sottosegretari giunti a frotte, legittimamente ma con quintali di promesse che puzzano demagogia lontano un miglio: almeno Remo Gaspari era di qui e conosceva pure i sassi della sua terra, questi ci sono venuti un giorno solo per un comizio e via. E a proposito di comizi, lei, Giorgia Meloni, avrebbe bisogno di qualcuno che le dicesse di smetterla con gli spettacolini in piazza e che non essendo né Giorgio Almirante né Gianfranco Fini non risulta spiritosa ma fastidiosa, e non esiste teorizzare che c’è una presidente del Consiglio che parla e poi anche una segretaria di partito che urla, sempre lei è e questa doppiezza comportamentale alla lunga confonde se non peggio.
L’impressione è che Meloni non stia andando personalmente bene tanto che ha bisogno di evocare trame e complotti – «sento un brutto clima» – le solite scuse per aizzare, lei, il clima brutto: tutto già visto, tutto già vissuto. Se la destra domenica perderà sarà una botta forte, il probabile inizio di una crisi del rapporto con il Paese, con la Lega in caduta libera e Fratelli d’Italia con qualche affanno mentre a sorpresa dovrebbe confermarsi questa resilienza di Forza Italia sulla quale bisognerà ragionare. Se la destra vincerà avrà vinto in casa, nulla di straordinario, scampato pericolo. Per le opposizioni torneranno a riaprirsi tutte le ferite sulle quali la Sardegna ha giusto messo un po’ di cerotti e tornerà a dividersi e a farsi del male come in un eterno déjà vú. E forse bisognerà imparare a non alimentare le grandi illusioni, ché poi i risvegli sono dolorosi.