Trafficanti di coverL’Espresso è irrilevante, ma Ferragni ha perso il superpotere

La copertina del newsmagazine ha fatto discutere a vanvera l’Internet. Un tempo Chiara avrebbe risposto accendendo la telecamera del telefono, come la Carneade che strilla «patriarcato» e per questo pubblica con Feltrinelli

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La domanda più ricorrente sul mio telefono, giovedì sera, non era «una copertina che ti ritrae come Joker è offensiva o no?»; non era «cosa ci sarà scritto nell’inchiesta sulle società della Ferragni?»; non era neppure «ma vedo sul suo Instagram che Chiara Ferragni sta prendendo un aereo per New York, se l’è dunque per la prima volta pagato da sola senza uno sponsor piccino picciò?».

La domanda più ricorrente sul mio telefono, giovedì sera, era: ma che giorno esce L’Espresso? Quando, consapevoli che fosse il loro modo per comunicare la resurrezione alla Galilea tutta, quelli dell’Espresso hanno diffuso l’immagine della copertina, l’Italia si è divisa in due.

Sarebbe facile scambiarla per una divisione tra coloro che erano a favore dell’immagine e coloro che la ritenevano un ciccinino sproporzionata: il Madoff/Joker del New York Magazine aveva mandato sul lastrico migliaia di persone; Chiara Ferragni, a leggere la per così dire inchiesta, sarebbe una qualunque ricca con un commercialista che si guadagna la parcella (almeno quello non fornisce servizi scarsi in cambio del supplied by, si vede).

In realtà la divisione è tra chi sa i giornali, parlandone da vivi, e chi per l’occasione s’è improvvisato esperto di copertine di newsmagazine e s’è precipitato sui social a dirci che insomma, evidentemente noi sprovveduti non abbiamo familiarità con le copertine dissacranti dell’Espresso.

A parte che L’Espresso, parlandone da vivo, era noto soprattutto per le copertine coi culi; a parte che, in questo secolo, l’unica copertina dell’Espresso che si ricordi è quella “Trafficanti di virus” con cui tentarono di rovinare la vita a Ilaria Capua (copertina che compie dieci anni tra poco); a parte tutto, nessuno, e dico nessuno, degli improvvisati storici del giornalismo saprebbe citare una recente copertina dissacrante dell’Espresso, ma neanche una sua recente copertina qualunque, per due ragioni principali.

La prima è che, appunto, neppure noialtri che abbiamo vera consuetudine coi giornali guardavamo più L’Espresso da, boh, quindici anni? Vent’anni fa ancora si litigava, nelle redazioni in cui i settimanali arrivavano in numero minore rispetto ai quotidiani, per chi arraffava la preziosa copia. Io non ho mai perdonato un vicedirettore che m’ingiunse di consegnargli la copia di cui m’ero appropriata perché la vignetta di Altan che volevo portarmi a casa io lui voleva regalarla alla moglie (era stupenda, lui diceva «Mi chiedo: ma tu mi ami?», lei non alzava gli occhi dal libro e rispondeva «E cosa ti rispondi, di bello?»).

Poi non so cosa sia successo. Cioè, lo so benissimo: i giornali hanno finito i soldi con cui pagare quelli bravi, prima li hanno finiti i newsmagazine e poi, con Instagram, anche quelli fin lì foraggiati dagli stilisti cui ora conveniva investire in Ferragni. Se finiscono pure le Ferragni, magari quelli che hanno da piazzare cappottini e borsette tornano a rianimare la stampa da edicola, solo che a quel punto tocca riaprire le edicole nel frattempo chiuse.

Insomma, i due giornali che tutti leggevamo, Panorama e L’Espresso, sono diventati talmente irrilevanti che, quando Repubblica ha messo L’Espresso in abbinamento obbligatorio domenicale, conoscevo gente che la domenica non comprava neanche più Repubblica. Gente che giovedì scorso mi ha risposto: ma perché, non esce più la domenica?

Quindi, la prima ragione per cui è una scemenza dire che i newsmagazine abbiano una qualche viva tradizione di copertine in Italia è che da “Dalemoni”, che se siete vegliardi sapete cosa fosse e se non lo sapete allora non rompeteci i coglioni con la storia del giornalismo, sono passati ventisei anni. Dire che le copertine dell’Espresso sono un’istituzione è come dire che lo è la Sip.

La seconda ragione ha a che fare col fatto che i linguaggi esistono se esistono non solo emittenti ma anche riceventi. Gli abitanti di questo secolo e di questo paese (gli americani ogni tanto fanno ancora copertine stupende) hanno così poca consuetudine col linguaggio delle copertine che, quando Rolling Stone fece una copertina con Silvio Berlusconi nominato rockstar dell’anno, era il 2009, gli opinionisti non retribuiti montarono un casino che la metà bastava.

Ignari di cosa fosse un’iperbole, uno sberleffo, un paradosso, essi erano convinti di ciò di cui è certo chi dei giornali ha solo sentito parlare: che una copertina sia uno spazio pubblicitario. Se metti Berlusconi in copertina dandogli della rockstar non gli stai mica dando del cocainomane e del puttaniere, macché: lo stai pubblicizzando, lo stai approvando.

L’unica pubblicità riuscita, in questo caso, mi pare quella dell’Espresso stesso, che nessuno di noi s’è incomodato a comprare, ma che almeno ora sappiamo tutti uscire di nuovo il venerdì, come quand’eravamo giovani e si comprava in lire: vi pare un risultato comunicativo da poco, ottenuto senza spendere un nichelino in campagna promozionale? Esistiamo ancora, usciamo il venerdì, accattatevill’.

Dopodiché la Ferragni è riuscita a sbagliare anche questa, minacciando causa, che magari farà davvero e che probabilmente perderà. Non perché non esista, in teoria, il diritto all’immagine. Ma, mentre ci annoiano a morte coi bavagli e le minacce alla libertà di stampa, nessuno racconta mai quanto sia difficile che un giudice condanni per diffamazione un giornale che effettivamente ti diffama. La causa di Ilaria Capua contro L’Espresso è stata archiviata, e insomma, se posso accusarti di aver speculato sull’aviaria e non venire rinviato a giudizio, mi pare difficile che poi mi condannino per averti truccata da Joker.

Tra l’altro, mentre i legali della Ferragni diffondevano comunicati minacciosi, ai margini dell’attenzione collettiva succedevano due episodi interessanti. Uno riguardava una Carneade di quelle che accendono il telefono e ci strillano dentro «patriarcato», e in nome di ciò vengono messe sotto contratto da case editrici un tempo rispettabili ma ora disposte a tutto per quel po’ di copie che ti assicurano le autrici con un patrimonio in cuoricini.

La Carneade giovedì ha trasformato in un happening la presentazione fiorentina del suo libro (quattromilasettecentosessantadue copie in cinque settimane: chissà se qualcuno negli uffici di Feltrinelli sta pensando che una volta ci si sputtanava per ben altre cifre). L’happening è andato così.

Prima dell’orario d’inizio, con evidente citazione di Vittorio Gassman che in “La terrazza” chiedeva «A che ora è la rivoluzione? Come bisogna venire: già mangiati?», la Carneade ha detto ai follower di non aspettare la fine per comprare il tomo: tra la presentazione e il momento delle dediche (in frasifattese: firmacopie), lei e i suoi amichetti avrebbero portato il pubblico altrove. Venite già comprati.

L’altrove era un’altra presentazione, d’un libro su Golda Meir che, al grido «Hamas sì che è contro il patriarcato e a favore del transfemminismo», Carneade e le sue accolite intendevano boicottare (sì, avevo scritto che sarebbero state capaci di scambiare Meir per ancella del patriarcato; sì: il mio per la preconizzazione di robe inimmaginabili è evidentemente un dono, ma pure una maledizione – mica Cassandra faceva una vita allegra).

Credo abbiate letto di questo siparietto, dopo il quale una delle presentatrici del libro ha scritto su Instagram che in Palestina è in atto un genocidio da settantacinque anni, e io che sono una persona orribile canticchio da tre giorni «vieni vieni con me, oh oh: genocidio lento».

Tra i molti che ne hanno scritto c’è stato Stefano Cappellini, che le ha sbeffeggiate su Repubblica, e Carneade s’è molto innervosita, ha fatto molte storie Instagram di insulti a Repubblica (un giornale che peraltro non ha affatto una corsia preferenziale con Feltrinelli, saranno contenti quei cinquanta o sessanta autori della casa editrice che sono anche collaboratori del giornale).

In una dice «sto felicemente leggendo tutti messaggi in cui mi fate vedere la vostra disdetta dell’abbonamento di Repubblica». Ora, o Carneade è mitomane o i suoi follower la ingannano: è chiaro che nessuno dei suoi cuoricinatori s’è mai abbonato a un giornale.

Peraltro i giornali italiani mica sono il New York Times, che gli scrivi «siete dei sionisti e io disdico» e ti offrono un anno a metà prezzo per farti restare: gli abbonamenti italiani non li puoi disdire fino alla fine del periodo pagato, e anche per farlo allora devi mandare una fotocopia di documento e altre novecentità – non che Carneade e i suoi fratelli lo sappiano, non avendo mai letto un giornale in vita loro.

Però guardavo queste immagini instagrammatiche e pensavo: è quel che una volta avrebbe fatto la Ferragni, parlandone da viva. Scatenare la folla contro chi osava criticarla. Una volta avrebbe fatto in modo che i follower decostruissero la copertina, vuoi che non ce ne fosse uno disposto a dirle, e a venire da lei con finto candore rilanciato, che Joker era vendicatore degli oppressi e insomma bel lapsus, caro Espresso?

E invece ora la bionda manda alle agenzie di stampa comunicati legali come una valletta qualsiasi, come una che ha perso il superpotere d’accendere la telecamera del telefono e dirci puttanate convincenti dentro.

A parlare dentro al telefono è rimasta Carneade, smaniosa d’accaparrarsi il riflettore quanto Ferragni ma con meno capacità di simulare garbo, e guardando i suoi siparietti pensavo: chissà se è la volta che i media imparano a lasciare queste cretinette al tavolo dei bambini invece di trattarle alla pari e farle sentire importanti. E poi mi rispondevo: macché. Continueranno a contrattualizzarle acciocché urlino, da dentro il sistema, che a loro il sistema fa schifo.

Il secondo episodio interessante è quello d’un’altra smaniosa di riflettori, la ragazza che a Cambridge ha distrutto un dipinto del 1914 in nome d’una qualche buona causa (buona causa che non era uno stanziamento di bilancio per la riapertura di manicomi in cui rinchiudere queste sciamannate).

La ragazza – inspiegabilmente ancora non contrattualizzata da editori d’un certo livello – aveva uno zainetto ben visibile (era forse un adv? Alla rivoluzione con lo sponsor?) nella ripresa di schiena mentre sfregiava la tela. Nell’epoca in cui invece del punto croce si fa il debunking, era inevitabile che poco dopo tutti si precipitassero a dirci di che marca fosse lo zainetto.

Individuata la marca e il prezzo (circa milleseicento euro), i commenti erano compattamente indignati: una che si preoccupa dell’emergenza climatica poi spende quella cifra per una borsa, ohibò. Non trasecolavano che per milleseicento euro una comprasse una borsa così brutta, no, quello pareva non importasse a nessuno: era la cifra in sé a scandalizzare.

E quindi ho capito che ha ragione quella mia amica che ho sempre accusato di semplificazione, e la cui analisi del caso Ferragni consiste in: sta sul cazzo a tutti perché ha troppi soldi. È solo quello. Sono evidentemente l’unica a intenerirsi quando si filma sulle bici a noleggio di New York, noleggiate (dev’essere la prima volta) coi suoi spiccetti, invece di salire su qualche limousine a scrocco. Sono evidentemente l’unica che sa che il punto non è quanti soldi hai: è come li spendi. Per comprare borse brutte e andare in mondovisione, per noleggiare limousine se nessuno te le fa scroccare e sembrare non in declino, o per dare anticipi editoriali insensati a Carneadi sgrammaticate ma veementi.

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