L’economia del percepito Giochini, soffritti e altre idee per salvare l’editoria (finché non compra tutto Zuck)

Che cosa c’entrano il Wordle e le ricette del New York Times con gli screenshot degli editorialisti narcisi e il piagnisteo per la mancata candidatura agli Oscar della regista di Barbie (che al massimo piange fino in banca)?

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Mi chiamo Guia, ho cinquantun anni, e il mio umore d’ogni giornata dipende da ciò che è accaduto la notte prima a mezzanotte e zerouno, quando le carrozze si trasformano in zucche e il New York Times mette in rete il nuovo Wordle. Se indovino la parola del giorno al terzo tentativo, la mattina dopo mi sveglierò sentendomi intelligentissima; dal quarto in poi, è meglio starmi lontani.

Mentre scrivo quest’articolo sono d’umore scintillante giacché, a mezzanotte e zerouno, è accaduto uno di quei miracoli che noialtri atei chiamiamo «botte di culo»: ho indovinato «relic» al secondo tentativo, quel risultato che fa di me un genio del purissimo presente e della giornata a seguire una giornata in cui tutto può succedere, persino ch’io provi a spiegarvi cosa c’entri il mio passatempo di mezzanotte con gli incassi di “Barbie”, con la morte dei giornali, con la televisione, con l’economia del percepito.

Di tanto in tanto, qualche giornalista che conosco s’imbizzarrisce contro qualche politico che mette sui social la foto della pagina con la propria intervista del giorno. I giornali si pagano, puntesclamativo. Che modo di fare è mai questo, ripuntesclamativo. Si vergogni, gabibbesclamativo.

Accade sempre meno perché c’è un problema tecnico: se insulti il deputato che posta la propria intervista togliendoti i milioni di copie che sicuramente verrebbero acquistate per leggerla, devi insultare anche gli editorialisti che postano i loro editoriali. A non postare i nostri articoli sui social siamo, ha calcolato il WWF, in tredici in tutta Italia: stanno pensando di dichiararci specie protetta.

Però aspettate: ci sono due diverse specie di articoli postati sui social. Due diverse tipologie di disperazione. E vanno analizzate ognuna con la propria specificità.

Uno è il link. Linkiesta, per dire, ha i suoi bravi account social, sui quali posta i link degli articoli, anche dei miei. Accade quel che accade con tutti i link di tutti gli articoli che il lettore ha la possibilità di leggere gratuitamente, cliccandoci: non li leggono comunque.

I giornali stanno sui social in quel modo delle donne sposate con uomini senza qualità: con gli estranei che osservano trasecolando e chiedendosi «ma cosa ci fa con quello?». I giornali stanno sui social a farsi dire «ma non vi vergognate» da gente che, nella più impegnativa delle ipotesi, ha letto dell’articolo la frasetta che sta sulla card di Instagram (a farsi dire «vergogna» oppure a farsi dire «genio», che è una forma di demenza del commentatore di questo secolo forse un ciccinino meno diffusa ma non meno grave).

I social dei giornali, di tutti i giornali, non sono mai mai mai commentati da lettori, ed è una cosa abbastanza ovvia: chi commenta su un social vuole sentire il suono della propria voce, dirci che esiste, mica fare lo sforzo di leggere altri e magari addirittura imparare qualcosa. A quei tredici (tredici anche loro, come noi) che ancora leggono, a loro non verrebbe mai in mente di commentare in pubblico.

La seconda tipologia di disperazione è quella dell’editorialista che posta la foto del proprio editoriale. In quel caso si tratta di chi scrive per giornali di carta, e vuole farsi dire «ti leggo sempre» da gente che col cazzo che paga per leggerti.

La curva comportamentale è sempre la stessa. Il direttore dice qualcosa tipo «devono abbonarsi e pagare», e allora l’editorialista per qualche giorno, massimo una settimana, mette il link a pagamento; poi verifica il crollo numerico dei «genio, puntesclamativo», subisce una grave ferita narcisistica, si deprime, e riprende a fotografare l’editoriale e a postarlo.

Giacché l’importante è il successo percepito e farsi dire «genio», mica il successo reale, cioè che la gente ti compri e ti legga. Non vale solo per i giornali, figuriamoci: il percepito prevale sul reale ormai in ogni settore.

Se il tuo film ha incassato un miliardo e mezzo di dollari, puoi comunque venire percepita come vittima se come regista non vieni candidata all’Oscar. Di fronte al tentativo di vittimizzazione di Greta Gerwig, una che in questo momento potrebbe decidere di fare un film sui suoi calli e glielo finanzierebbero, in molti hanno prontamente tirato fuori il mio dialogo preferito di “Mad Men”, quello in cui Peggy frigna perché Don non ringrazia mai, e lui le ricorda che il suo ringraziamento sono i soldi che le dà ogni mese.

Ma i più non hanno capito, giacché – in un’epoca in cui si è deciso che il successo non è dato dalla dichiarazione dei redditi ma dal numero di gif che ti vengono dedicate – dire che Gerwig dovrebbe piangere fino in banca è inconcepibile.

Di recente ho visto un documentario in cui una conduttrice televisiva, d’un programma in effetti ben più condiviso sui social di quanto sia visto alla tele, racconta che spesso le dicono «vedo sempre il tuo programma su TikTok», epperò, spiega, questa è una buona cosa, perché vuol dire che la tv generalista esce dalla tv e raggiunge l’ambìto pubblico giovane.

Accantoniamo per un attimo il solito tema del feticismo del pubblico giovane in questo secolo scevro di senso del ridicolo, e facciamoci la domanda che si sarebbero fatti James Carville, inventore dello slogan elettorale «It’s the economy, stupid», o Don Draper: chi ci guadagna, in questa economia della condivisione gratuita?

Chi guadagna dal pezzetto di puntata messo su TikTok, dall’editoriale messo su Instagram, dall’intervista messa su Twitter? Non la rete televisiva, non il giornale, non l’editore. Quando nelle riunioni di redazione qualcuno dice che gli articoli della sua sezione sono quelli che creano più engagement sui social, cioè quelli che nessuno legge ma tutti commentano, io penso sempre: ah, gli articoli che fanno più fatturare Zuckerberg.

La settimana scorsa il New York Times ha spiegato che i miliardari non riescono a fare i soldi coi giornali: Jeff Bezos, che ha fatto i fantastiliardi con Amazon, ha comprato il Washington Post e lasciamo perdere; Patrick Soon-Shiong, che ha fatto i fantastiliardi con le cure per il cancro, ha comprato il Los Angeles Times e stanno licenziando che è una bellezza; Marc Benioff, che ha fatto i fantastiliardi con le cloud, ha comprato Time e forse neanche la copertina a Taylor Swift riuscirà a salvarlo.

Certo, pensavo leggendo: l’unico che dovrebbe comprare giornali è Zuckerberg, giacché l’unica cosa che vogliano fare gli abitanti di questo secolo è dirci cosa pensano del ritaglio d’articolo che vedono su Instagram; nel farlo, arricchiscono comunque lui: tanto vale sia lui l’editore di tutti gli articoli fotografati e condivisi e non letti.

Il New York Times ha due sezioni che non rientrano negli abbonamenti di base, per le quali devi pagare un abbonamento separato. Sono quella delle ricette, e quella dei giochi. Per le ricette no, perché soffro pur sempre della superiorità antropologica di chi è cresciuta in una nazione che crede nella pasta al dente assai più che nel Rinascimento; ma per Wordle (e per mille altri giochini che pure faccio ogni giorno) io pago lietamente un abbonamento supplementare.

E vi dirò di più: ci sono giorni in cui non apro neanche mezza volta le pagine degli articoli, ma non c’è una volta che mi dimentichi di provare a trovare la parola di cinque lettere che devi indovinare entro il sesto tentativo, e non c’è reportage sulle guerre del mondo che possa condizionarmi l’umore quanto il risultato di Wordle.

La possibilità di conseguire, scrivendo cose che andrebbero lette e magari persino meditate, facendo programmi televisivi che durino più del minuto socializzabile, la possibilità di conseguire con quei metodi novecenteschi un successo che non sia solo percepito ma reale, che non sia di narcisismo ma di riscontri economici, quella possibilità lì è finita, morta, non rianimabile. Però ci restano i giochini e i soffritti e i film per cui vestirci di rosa: vi pare poco?

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