Per cosa si vota il 9 giugno La migliore difesa è investire nella sicurezza delle democrazie europee

Le famiglie politiche dell’Unione, popolari e socialisti democratici, faticano a spiegare agli elettori quale sia la priorità per l’intero continente. Servono coraggio e impegno finanziario come contro il Covid

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Più che una mucca, al centro della war room europea c’è un toro, armato con atomiche, con milioni di soldati (potenziali), senza lo scrupolo di violare il diritto internazionale e gonfio di adrenalina testosteronica. Che piaccia o no, con questo animale imperialista gli europei, non solo gli ucraini, hanno e avranno a che fare chissà per quanto tempo. Purtroppo. Che piaccia o no alla maggioranza delle opinioni pubbliche continentali, la vittoria russa avrebbe conseguenze dirette sulle nostre economie. Come ce l’hanno i missili che gli Houthi lanciano sulle navi mercantili nello stretto di Bab el-Mandeb, all’ingresso nel Mar Rosso, sulla rotta marittima del canale di Suez che hanno già avuto effetti negativi nei supermercati sotto casa e sui prezzi dell’energia, a cominciare dal gas liquefatto degli Emirati che sostituisce il gas russo. E ovviamente sul nostro export: la Banca d’Italia ha valutato un crollo di almeno il sedici per cento delle esportazioni italiane.

Sì, le guerre “altrui” ci riguardano direttamente. Il pacifismo a costo zero non esiste. La necessità di difenderci e di spendere per la sicurezza è diventata una delle più grandi priorità, ma non è ancora al centro della campagna elettorale per le elezioni europee di giugno. È chiaro che parlare di riarmo e di spese militari è impopolare. Si perdono voti e si dà fiato alle destre anti-europee e filo-putiane. L’ipotesi di un’economia di guerra è considerata una bestemmia, a maggior ragione se a farlo fossero i singoli Paesi dell’Unione.

Diverso, invece, se questa operazione di sopravvivenza esistenziale la facesse Bruxelles con debito pubblico comune, come è stato fatto per affrontare l’emergenza Covid, con il programma Next Generation Eu. In questo caso, l’emissione di bond europei sarebbe oltremodo necessario.

Di questo ha parlato Paolo Gentiloni dal palco dell’evento per i quarant’anni di Affari&Finanza di Repubblica, lunedì all’Università Bocconi. Per il commissario europeo all’Economia, la risposta è il debito comune: «Abbiamo rotto il tetto di cristallo» con il Recovery plan. Un modello virtuoso per una strategia di politica industriale della sicurezza, un atto preliminare per la difesa comune su cui, ammette il commissario europeo, «negli ultimi trent’anni non abbiamo fatto passi in avanti straordinari».

Di questo invece non hanno parlato i Socialisti nel congresso di sabato scorso a Roma. Di questo non parleranno i Popolari nel loro congresso di domani e dopodomani a Bucarest, almeno a sentire le parole di Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri, in un’intervista di ieri al Messaggero, ha elencato una serie di punti del programma con il quale il Partito popolare europeo, il maggiore partito continentale, si presenta alla sfida elettorale del 9 giugno. Fa cenno alla nuova figura del Commissario alla Difesa, già annunciata dalla ri-candidata alla presidenza della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Ma sarà una figura senza forza, senza esercito, ininfluente come Josep Borrell, l’attuale Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza. Il quale proprio ieri, nel corso della presentazione a Bruxelles della strategia sulla Difesa europea, ha detto che occorre rafforzare la nostra capacità di produrre armamenti, passando da una modalità d’emergenza a una visione di medio e lungo periodo. Il suo collega per il Mercato interno, Thierry Breton, si è sbilanciato: la Commissione dovrà lavorare all’idea di nuovi eurobond per la difesa da cento miliardi, ma se ne parlerà nel prossimo mandato, cioè alla fine dell’anno.

Forse sarà troppo tardi, ma soprattutto bisognerà vedere chi ne farà una priorità in campagna elettorale. Finora ne hanno parlato solo il presidente francese Emmanuel Macron, la premier estone Kaja Kallas e il premier belga Alexander De Croo. Nella stessa strategia per l’industria della difesa, presentata ieri a Bruxelles, si parla di acquisti congiunti di armi e di un piano di investimenti da 1,5 miliardi di euro fino al 2027: l’obiettivo è accelerare la produzione in Europa per portare il continente a essere pronto a reagire. Come verranno finanziati? Il piano prevede l’intervento anche della Banca europea degli investimenti (Bei), ma non c’è traccia degli eurobond.

È chiaro che l’attuale Commissione di Bruxelles non ha più la forza di prendere certe decisioni, anche perché il vero input dovrebbe venire dal Consiglio europeo, cioè dai governi dei singoli Paesi. Ma in questo periodo sono tutti dei comitati elettorali. Andare nelle piazze e in televisione per dire che ci vogliono eurobond per produrre più armi, che le nostre economie dovranno profilarsi in modalità bellica, è un rischio esiziale per il risultato delle urne. Eppure, senza retorica, l’esito elettorale del 9 giugno è la madre di tutte le battaglie a difesa dell’Unione europea.

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