Quando nel 2019 Ursula von der Leyen divenne presidente della Commissione europea, la priorità per Bruxelles nei cinque anni seguenti era chiara: garantire il percorso della transizione ecologica, ribadendo il ruolo di avanguardia globale dell’Europa nel campo e innovando il sistema produttivo per non perdere competitività e peso globale. Da questa consapevolezza nacque il Green deal, un pacchetto direttive e regolamenti per raggiungere questo obiettivo.
Oggi, nel 2024 e con le prossime elezioni europee imminenti, la situazione appare molto più frastagliata. Il Green deal, le cui norme dovrebbero consentire all’Unione europea di ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il cinquantacinque per cento entro il 2030, ha sì contribuito a importantissimi passi avanti in materia di sostenibilità, ma ha dovuto spesso condividere il dibattito, le priorità politiche e soprattutto le risorse economiche con le emergenze di questi anni: il Covid ha costretto a trovare rapidamente risorse per rispondere all’emergenza; la guerra in Ucraina ha riproposto la dinamica in maniera ancora più virulenta, per giunta costringendo l’Ue a varare RePowerEU, la risposta alla crisi energetica causata dal venir meno dal gas russo, che prevedeva l’uso di fonti altamente inquinanti come misura temporanea.
Negli ultimi anni, inoltre, la sostenibilità è diventata oggetto polemico di alcune forze politiche, tanto a livello nazionale quanto europeo. In Europa, sono soprattutto i gruppi di destra come Identità e democrazia (a cui aderisce, in Italia, la Lega) e Conservatori e riformisti europei (Ecr, il gruppo di Fratelli d’Italia) ad aver fatto del Green deal l’obiettivo principale delle loro critiche.
In questo scenario, la crescita dei partiti nazionali di Ecr ha spinto i popolari europei del Ppe, su impulso del leader Manfred Weber, a cercare un dialogo con la destra al Parlamento europeo, e spesso il prezzo da pagare è stato il dover assumere posizione più conservatrici su alcuni temi ambientali, nonostante Ursula von der Leyen stessa sia del Ppe.
A causa di questa dinamica, si è diffusa negli ultimi due anni una lettura che vede l’operato della Commissione sul Green deal come un sostanziale cambio di rotta. I toni di von der Leyen si sono fatti meno decisi sulla transizione, i movimenti parlamentari dei popolari più inclini a concedere ai conservatori, e talvolta negli Stati membri i partiti popolari hanno sposato una certa retorica “anti-transizione verde”
Tuttavia, nell’ultimo anno il Parlamento europeo ha approvato una serie di direttive e regolamenti importanti per il Green deal. È il caso, ad esempio, della legge sul ripristino della natura (Nature restoration law), che introduce importanti obiettivi per il recupero e la tutela degli ecosistemi, o la cosiddetta direttiva sulle “case green”, che prevede la costruzione di edifici climaticamente neutri e il recupero di quelli vecchi e più inquinanti. Sul piano industriale e commerciale, l’Ue ha recentemente approvato la direttiva contro il greenwashing, che combatte le informazioni fuorvianti per i consumatori, e la direttiva sulle emissioni industriali, che impone alle realtà produttive regole stringenti per il monitoraggio della riduzione delle emissioni.
È quindi inesatto dire che il Green deal è stato affossato, ma è innegabile che un misto di esigenze contingenti create dalle crisi globali e di opportunismo politico legato alla linea dei popolari e di Ursula von der Leyen lo hanno trasformato, in parte annacquandolo: simbolo di questo processo è proprio la legge sul ripristino della natura, che il Ppe ha provato a indebolire al punto che, al momento del voto, molti membri del partito hanno votato favorevolmente agli emendamenti di socialisti e verdi, di fatto favorendo la sconfitta della linea di Manfred Weber di dialogo con Ecr. È eloquente, inoltre, che alcuni di questi provvedimenti siano stati approvati in scadenza di legislatura, come per la consapevolezza che il prossimo Parlamento europeo potrebbe non avere la stessa attenzione nel discuterli, o l’interesse a non disarticolarli profondamente.
Il prossimo voto europeo sarà quindi innegabilmente anche un voto sul Green deal, e ne determinerà in larga parte la sopravvivenza, in termini di reale centralità politica e d’azione delle istituzioni europee. I risultati di Identità e Democrazia ed Ecr saranno indicativi di cosa attenderci, ma un ruolo sarà anche giocato dalla presidenza della Commissione. Più profondamente, però, per l’Ue i prossimi cinque anni porranno inevitabilmente anche il tema dell’azione esterna in ottica climatica: l’Europa sarà chiamata non solo a proseguire sul percorso della transizione, ma anche a influenzare altri attori globali a fare lo stesso. Se gli Stati Uniti hanno fatto passi importanti sul percorso di decarbonizzazione, lo stesso non può dirsi di altri attori globali.
Il rischio, dunque, è quello di fare solo una parte del lavoro: l’Ue può salvare il Green deal, ma l’innovazione e la decarbonizzazione europee non salveranno il mondo da sole. In un contesto internazionale complicato, aggiungere sul tavolo le politiche climatiche può favorire tensioni e allontanamenti, ma è l’unica cosa da fare per rimanere sotto gli aumenti di temperatura indicati come catastrofici dalla comunità scientifica. La domanda sulla sopravvivenza del Green deal, dunque, andrebbe ampliata: l’Ue dei prossimi cinque anni avrà la volontà e i mezzi per coinvolgere anche altri soggetti nella battaglia per salvare il Pianeta?