Come ogni anno, ci è servito qualche giorno di riflessione per poter elaborare i contenuti che il Congresso Identità Milano 2024 ha rilasciato durante la sua tre giorni di kermesse tra il 9, 10 e 11 marzo. Giunto alla diciannovesima edizione, questo evento è ancora per il momento l’unico in Italia nel quale poter incontrare chef internazionali che raccontano delle proprie realtà, ascoltare testimonianze di giovani chef, approcci culinari contrastanti, visioni e progetti per un futuro gastronomicamente più responsabile oltre a numerosi ottimi assaggi. Un format che si articola in lecture dall’impianto quasi accademico – anche per l’importanza dei relatori coinvolti, focus su prodotti e ricerche gastronomiche, show cooking, cocktail pairing ed experience dedicate a giornalisti e addetti ai lavori.
Qui di seguito trovate un riassunto degli spunti raccolti dalla nostra redazione (non troverete “tutto” perché purtroppo non abbiamo potuto seguire tutti gli interventi voluti per via di sovrapposizioni orarie).
Pizza Revolution by Francesco Capece
In occasione di Identità di Pizza, Francesco Capece co-founder e pizzaiolo di Confine (Milano) ha raccontato la rivoluzione – sempre più grande – che insieme ai suoi soci e al loro giovanissimo team, l’insegna ha avviato. Partendo dal modello pizza gourmet si è pensato al desiderio di una pizza ancora più attuale, non necessariamente più buona ma più contemporanea, un prodotto artigianale ma creato con l’aiuto di un supporto tecnologico determinante. Due i punti cardine della riflessione: raggiungere uno standard qualitativo costante e quindi il mantenimento di una qualità sempre al meglio e, forse ancora più importante, cambiare l’esperienza del cliente in pizzeria. «Abbiamo voluto creare un luogo dove per ognuno di voi si possa studiare una proposta ad hoc, facendovi godere appieno il nostro prodotto e il nostro lavoro e innalzando il percepito di questa tipologia di ristoranti. Ecco perché serviamo pizze a spicchi e non intere, per concentrarci al massimo in termini di gusto e attenzione gustativa, su una porzione inferiore di prodotto ma esplosiva in termini di sapore. Il commensale è al centro, la cucina è a disposizione del commensale, le cinquecento etichette che compongono la nostra cantina sono pensate per divertirsi, provare abbinamenti insoliti e coccolarsi anche con grandi etichette». La lezione di Capece ha raccontato lo studio portato avanti sin dal 2020 sulla pizza Marinara, per arrivare al 2024 con un prodotto totalmente ripensato e che prende il nome di L’Umaminara. Noi non vi sveliamo nulla ma vi invitiamo ad andarlo a provare al più presto!
La parola al lievito
Sempre nell’ambito di Identità di Pizza ma senza parlare necessariamente di pizza, Davide Longoni e il suo braccio destro Davide Orlando hanno sorpreso il proprio pubblico con una lezione e una degustazione piuttosto inusuali. Riportando l’attenzione sull’identità del pane come prodotto di una fermentazione, si è passati ad analizzare le varie tipologie di lieviti utilizzate in generale nell’ambito della panificazione e nello specifico nel laboratorio di Davide Longoni. «Si tende sempre ad associare il pane a un prodotto naturale. In realtà si tratta del risultato di un processo chimico preciso e che non potrebbe avvenire senza l’uomo e senza l’aiuto dei lieviti. Non si parla mai – sbagliando – dell’importanza del lievito nel prodotto finale che andiamo ad assaggiare. Possiamo divertirci a cambiare la farina ma nel momento in cui andiamo a toccare i lieviti possiamo davvero modificare i connotati dell’impasto». Da questo ingrediente infatti dipendono acidità, aroma, lievitazione, umidità, texture e longevità del prodotto, senza considerare che sfogliati dolci, pizza, pane, focacce e lievitati dolci richiedono ognuno lieviti diversi. Da vero rivoluzionario, Longoni ha guidato il pubblico in sala in una degustazioni di pasta madre liquida e solida, lievito di birra, biga e sponge raccontandone caratteristiche e utilizzi.
Come ti svolto il dessert
Direttamente da Berlino, René Frank (World Pastry Chef 2022) è arrivato sul palco del Congresso per raccontare CODA (due stelle Michelin), il suo affascinante e splendidamente unico dessert restaurant. Nonostante chiamarlo così faccia subito pensare a glicemie in ascesa e dolci cremosi, in realtà, il format offre ben altro. «Volevo creare un posto in cui potessi esprimermi liberamente e creare il mio mondo. Berlino è la città perfetta per questo e CODA è oggi il prodotto della ricerca portata avanti negli ultimi otto anni di lavoro. I piatti sono dessert, realizzati con le stesse tecniche, la stessa attenzione al dettaglio e composizione degli ingredienti, ma l’obiettivo è raccontare prodotti, tornare all’origine degli ingredienti». Tutti i gusti vanno rispettati quindi all’interno di un percorso degustazione, dal dolce all’acido all’amaro all’umami. E per ottenere queste sensazioni ci sono modi molto diversi, spesso ancora poco esplorati e pressochè mai associati a un concetto di dessert. Un altro esempio importante del lavoro e del livello di pensiero dietro al format, guida il concetto del “from bean to plate” introdotto ex novo dallo chef. «Da CODA abbiamo deciso che avremmo avuto il nostro cioccolato perché ci piace il contatto con la purezza dell’ingrediente, partire dal suo stato naturale per guidarne la trasformazione ed esserne parte in maniera determinante. Dalla scelta della tipologia di fava, seguiamo tutti i passaggi fino alla produzione del cioccolato nella consistenza, dolcezza, tipologia che desideriamo».
Caleidoscopico, Rasmus Munk e il suo mondo
È stata poi la volta di uno dei giovani più rivoluzionari nella storia della gastronomia contemporanea – molti prevendono che l’impatto del suo lavoro sarà affine a quello che solo Ferran Adrià ha avuto nel corso degli anni – ovvero Rasmus Munk. Classe 1991, danese, executive chef e direttore creativo di Alchemist, il ristorante – teatro – laboratorio più famoso al mondo. La sala dove si gustano la maggior parte delle portate ha una volta a semisfera che ricorda quella di un planetario e qui si cena venendo totalmente immersi e suggestionati da immagini e coreografie proiettate sulla volta. Ci sono poi sale separate in cui si gustano singole portate o dove non è previsto un piatto ma solo la presa di coscienza di uno stato o di una condizione. A conclusione del percorso, una grande sala piena di palline in cui tuffarsi – sì proprio come quelle di quando eravamo piccoli – abbatte qualunque tipo di barriera e ci riporta bambini. «Alchemist è nato da una serie di stimoli che mi sono arrivati dalla cinematografia, dalla musica, dai concerti… non sono mai stato un grande lettore. L’idea era di concentrare più forme d’arte in un unico spazio e creare piatti che potessero andare oltre la classica idea di cibo, menu, ricetta». Un concetto in rottura con il classico ristorante e che trae ispirazione da temi sociali, religiosi, situazioni politiche, temi legati al benessere degli animali, alla natura. La ricerca non parte dall’ingrediente ma parte da fatti reali, dalla vita che ci circonda, per poi essere tradotti in prodotto edibile.