Gastronazionalismi e mozzarellaIl mondo sta cambiando?

In Italia siamo abituati a parlare di pizza, e spesso ci ergiamo giudici infallibili e assaggiatori professionisti di un alimento che in realtà sta attraversando un’era di rivoluzione molto forte. Soprattutto quando dirigiamo lo sguardo all’estero, ci rendiamo conto che le cose non sono sempre come le vediamo dal Bel Paese

Qualche giorno fa, in un quotidiano online cinese, il South China Morning Post, è stato pubblicato un articolo in cui il giornalista gastronomico di turno raccontava di come avesse gustato alcuni dei migliori piatti tradizionali di un determinato paese all’estero e non nella “casa madre”. L’articolo metteva in luce un tipo di turismo che non ricerca specialità locali quando viaggia, ma che preferisce farsi coccolare da ciò che già conosce e con cui va sul sicuro. Al di là di quelli che sono i pareri personali e anche al di là di un tipo di turismo che può essere a tratti poco illuminato (la cultura di un popolo viaggia a braccetto con il suo cibo, questo è un dato di fatto), quello che salta subito all’occhio è una relatività del gusto, che dipende dal sé, ma anche dalla cultura di provenienza.

Il giornalista scrive: «Mi sono felicemente imbattuto in una pizza nella capitale giapponese, al ristorante Koya, che ha una solida base quando si tratta di basi e impasti, ma aggiunge il fattore X integrando gli ingredienti locali. Così come ho promosso una pizza di ostriche di Hiroshima e radice di loto, e prima di allora una pizza di polpo di Hokkaido e di wasabi di Shizuoka: potrebbe non essere un qualcosa che rientra nei canoni classici, ma la pizza con ravanelli sottaceto, appena cotta nel forno a legna, che ho provato, era memorabile quanto le pizze che ho mangiato in Italia».

Ora, è inevitabile che, leggendo queste parole, con un punto di vista italiano, si rabbrividisca. A quale italiano verrebbe mai in mente, sia esso valdostano, romano o napoletano, di sedersi a tavola durante un viaggio in Giappone e ordinare una pizza? Tanto meno si avrebbe forse (lasciamo il condizionale) l’ardore di chiederne una farcita con la radice di loto. Questo però ci dovrebbe costringere a delle riflessioni, e non sulla piacevolezza o meno di quel tipo di pizza, che potrebbe anche essere semplicemente buona, ma sul fatto che troppo spesso, soprattutto quando si tratta di piatti nazional popolari, ci dimentichiamo quanto sia vasto il mondo e quanto esso comprenda in sé una moltitudine di palati e di relativismo culturale e gastronomico. 

Spostiamoci, ad esempio, nel vecchio e caro continente, abbandonando per un attimo gli arditi pareri culinari cinesi: a Londra negli ultimi tempi pare che la pizza stia prendendo, finalmente, il giusto riconoscimento, dopo anni in cui aveva sì il suo spazio, ma limitato alle grandi catene di fast food, che mai erano riuscite a entrare davvero nel cuore degli inglesi. Complice forse il fatto che veniamo da anni bui per il settore della ristorazione: una pandemia e diverse guerre che hanno fatto lievitare i costi e tagliato drasticamente il potere d’acquisto delle persone.

La pizza mantiene quel suo fascino di cibo quasi pronto all’uso, facilmente personalizzabile in base a gusti e necessità, e che permette di sfamarti a un prezzo competitivo (per quanto ovviamente possano essere considerati competitivi i prezzi di Londra: avete mai provato ad acquistare una pizza?). Forse questo è il motivo per cui in tanti ultimamente hanno deciso di aprire una pizzeria nella capitale inglese, nonostante a causa della Brexit siano sempre meno gli italiani che decidono di buttarsi in questa impresa. 

Ecco che ritorniamo al punto di partenza. Il folle amore per la pizza a Londra è dimostrato sì dai numeri delle nuove aperture, ma anche dall’enorme quantità di articoli su dove mangiare la pizza più buona delle varie testate giornalistiche. Se qualcuno in lista mette quasi solo pizzaioli italiani (L’Antica Pizzeria da Michele, 50 Kalò di Ciro Salvo o Berberé, giusto per fare alcuni nomi), dall’altra parte della barricata ci sono uno stuolo di pizzerie dove probabilmente noi italiani (anche a torto) non entreremmo mai.

La catena di Yard Sale, ad esempio, serve una margherita ispirata all’impasto napoletano, ma condita con una salsa al pomodoro piccante, e la Ace Pizza ne propone una con “manzo” del Texas a base vegetale, cipolle rosa in salamoia e jalapenos. Eppure a Londra la pizza cresce. E cresce tanto. Forse è il tempo giusto per discutere sul futuro dell’alimento più famoso al modo e per raccontare le cose da un punto di vista internazionale, abbandonando un concetto di pizza italocentrico, che forse non corrisponde totalmente alla situazione reale e attuale. 

Questo articolo fa parte di “A Spicchi”, il progetto di Petra e Molino Quaglia. Qui il link per l’iscrizione alla newsletter mensile, da condividere con gli appassionati della pizza.

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