«È difficile guardare qualcuno la cui vita professionale è fatta di successi e che su Instagram sembra avere la vita più felice del mondo e capire… È come con l’alcol: non ci sono abbastanza alcolici in tutti i negozi di liquori del mondo, per riempire quel vuoto. E nel caso di Jennifer credo non ci siano abbastanza follower, o film, o dischi». Lo dice Ben Affleck in “The greatest love story never told”, il documentario che sua moglie, Jennifer Lopez, ha fatto sulla lavorazione di un film assurdo su una ragazza che vuole solo essere amata – proprio come tutte noi.
«Anche se perdo non m’importa: ho ritrovato la mia dignità». Lo dice Barbara D’Urso in non so quale sceneggiato di gioventù, è la battuta che hanno scelto per illustrare la sua filmografia ieri da Mara Venier, il suo ritorno in tv nella più barbaradursica delle domeniche.
«Io sarò me stessa e tu sarai te stesso». Lo sospira Kate Winslet all’amante in “The Regime”, ed è l’unico di questi casi di sestessismo senza limitismo in cui è chiaro che quella battuta va interpretata al secondo livello di lettura, che è surreale, che è una parodia, che la dittatrice psicopatica che parla come una concorrente del “Grande Fratello” non è fatta per essere guardata da massaie sospirose che pensino ha ragione, l’importante è essere sé stessi.
In tutti gli altri casi non ci si può permettere la parodia dei cliché senza che venga presa essa stessa per un cliché, e bisogna avere un patrimonio sconfinato di sospensione dell’incredulità per pensare che quando Chiara Ferragni dice a Fabio Fazio «io sono io: autentica» lo dica sbeffeggiando chi è così fessa da dirlo davvero.
«Tosto, eh». Lo dice il personaggio di Giovanna Ralli in “C’eravamo tanto amati”, parla del romanzo che le ha dato da leggere il marito che tenta di alfabetizzarla, lei palazzinara senz’uso di sintassi. «Tosto? “I tre moschettieri”?», trasecola lui. (È un film del 1974: i miliardari analfabeti non sono ancora la norma).
«È un periodo un po’ tosto», dice Chiara Ferragni appena sedutasi al tavolo di Fabio Fazio, e provata dalla tostezza inciampa sulla prima concordanza («Tu sei una persona che mette a suo agio le persone»). A parte quello, si vede che si è preparata alla prova dialettica più complessa della sua vita, non costruisce neanche un superlativo con «super» (però le scappa un «sono una persona iperpreparata a queste cose»: le trentenni devono essersi convinte che i superlativi in -issimo facciano venire la cellulite).
Quando Fazio le chiede di questa vita in vetrina, Chiara Ferragni risponde come una che si percepisce più Emmanuel Carrère che un’autoscattista in alta moda o in acrilico: «Rinunci a una parte della tua privacy in favore del tuo racconto personale». D’altra parte Fazio ha pensato che la chiave per elevarla fosse continuare a ripetere «Oppenheimer».
Cioè: tu hai inventato questa cosa della vita in diretta, del metterti in vetrina davanti al cellulare, questa atomica le cui conseguenze non ci erano note, tu sei un caso di studio. «Hai quasi trenta milioni di follower, una cosa che non ha eguali». Al quinto «Oppenheimer» mi chiedo cosa dovrà dire Fazio il giorno in cui avrà ospite non tanto la Lopez (che ne ha 253 milioni, ma ha pure una carriera e insomma diciamo che Instagram ne è un’appendice), quanto Kim Kardashian (364 milioni di follower).
Apparentemente, a parte l’essere entrambe donne di questo secolo, e quindi emotivamente figlie del personaggio di Julia Roberts in “Notting Hill”, che sarà pure una diva strafiga e multimilionaria ma vuole solo essere amata, Chiara Ferragni e Jennifer Lopez non hanno niente in comune. Sì, Jennifer e Ben nella loro prima formazione di coppia, venti e più anni fa, sono stati il paziente zero della vita in vetrina: i paparazzi non li mollavano mai, e lei faceva i video sui paparazzi che non li mollavano mai. Ma non era tutto ciò che facevano: era un’atomica secondaria.
Jennifer Lopez ha una filmografia di tutto rispetto, tra i cui titoli c’è almeno un capolavoro; ha fatto alcune canzoni che conosce anche chi non le abbia mai ascoltate; è una delle donne più belle del mondo; è ancora retribuita dalla multinazionale delle mutande d’acrilico per comparire sulla loro cartellonistica.
Chiara Ferragni, beh, Chiara Ferragni attualmente ha un cane, non si sa se un marito («vediamo», ha detto a Fazio a proposito degli esiti della crisi coniugale), e avrebbe anche due bambini, ma quelli ormai ogni volta che li fotografa le dicono che sfrutta l’infanzia. Quindi il repertorio professionale è attualmente ridotto al cane e ai divani orrendi ma omaggio.
Tuttavia, mentre guardavo “The greatest love story never told” (è su Prime), pensavo che era esattamente il documentario che avrebbe voluto saper fare la Ferragni. Uno in cui si potesse dire una verità, in cui potesse dirla un marito più colto di lei, più concreto di lei, più di successo di lei («Scusa tanto se non sono un regista da Oscar e se a ventun anni non avevo già fatto tutto», dice Jennifer a Ben a un certo punto, e ride ma è oggettivo: lei era la burina alla quale ammiravamo il culo, lui era un enfant prodige del cinema indipendente).
Solo che quella verità lì, che parte da «Jennifer da piccola si è sentita trascurata, non servono grossi traumi per sentirsi così, ed è un buco che poi non colmi più», la Ferragni non la può dire. Non importa se è vera o no (probabilmente sì: se c’è una scusa che abbiamo proprio tutti, è una qualche forma d’infanzia infelice), importa che Chiara Ferragni non è Jennifer Lopez: è una che vuole fare bella figura.
La sua idea di bella figura è dire che la sua mamma l’ha sempre fatta sentire speciale, le sue sorelle sono sempre state le sue migliori amiche, la sua famiglia le ha sempre detto che poteva fare tutto. La sua idea di bella figura è perseguire l’immedesimabilità spostando le colpe a più di due gradi di separazione, andando sul palco di Sanremo a dire che a volte questa zozza società o qualche ex fidanzato cattivo non l’ha fatta sentire abbastanza. Solo che «il patriarcato» è un’entità che da casa ci fa annuire meno, rispetto all’infanzia infelice.
E infatti Jennifer Lopez è una star mondiale e ancora saldamente in mutande nelle gigantografie in stazione Centrale, e Chiara Ferragni – cui la stessa azienda ha detto: grazie, amici come prima – ieri sera era in tv a cercare di riconquistare le aziende che l’hanno mollata.
(Ho visto le migliori menti della mia generazione convinte che lo scopo di Chiara Ferragni nel farsi intervistare ieri sera da Fazio fosse riconquistare il pubblico, ma il favore del pubblico non è sul mercato: chi sta nella tua curva ci sta pure se stermini la famiglia, e a chi ti disprezza non c’è intervista che basti. La Ferragni era lì perché essere lì era l’ultimo tentativo che poteva fare di dire alle multinazionali della moda che non è radioattiva. Quando ha detto, della separazione tra profitti e beneficenza, «operazioni di questo genere, che non sono mai state fatte da quel momento in poi», tutti abbiamo pensato «per forza, Chiare’: da dicembre non ti vogliono avvicinare neanche le aziende di merendine del discount»; Fazio, un gentiluomo, non l’ha sottolineato).
L’idea di bella figura di Chiara Ferragni è scegliere per questa sortita televisiva Fabio Fazio, e non solo perché pensa il Codacons quanto avrebbe strepitato se fosse andata dalla Venier, il servizio pubblico, coi nostri soldi, tutte le Lisistrata dai loro tinelli a dichiarare lo sciopero del canone. Si va da Fabio Fazio perché è il posto dove vanno quelli culturalmente presentabili, quelli al di sopra di ogni sospetto, quelli senza macchia.
Fabio l’ha messa – lei con le sue lacrime che sembrano finte anche se sono vere, lei che piange guardando lo showreel dei suoi successi – subito dopo due dolentissime interviste, una sui migranti e una su una ragazza ammazzata dall’ex. S’è accorta d’essere l’alleggerimento, Chiara, e ha detto quel che volevamo sentire noi dolenti medie riflessive: «La mia storia è una storia piccola così rispetto alle tragedie che accadono ogni giorno nel mondo»; chissà se si è accorta anche che mai s’era vista scaletta più barbaradursica.
In “The Regime” (è su Sky) a un certo punto la dittatrice sbotta: sì, vabbè, un cavallo della polizia ha preso a zoccolate uccidendola una donna incinta durante una manifestazione di protesta, ma insomma se sei incinta non andare a manifestare. La versione del regime esteuropeo è che siano stati gli americani: la Cia emette delle radiazioni che fanno dire alla cancelliera cose assurde, boicottandone l’autorevolezza.
Chiara Ferragni non ha nessuna scusa altrettanto pirotecnica, nessun annuncio acchiappashare, dice «Ho fatto tutto troppo velocemente, non mi sono mai fermata a vivere il presente», ma mica dichiara che si ritirerà per un anno. Fazio è sbrigativo com’è quando capisce che quell’ospite gli farà fare il quindici per cento, ma proprio non riesce a fregargliene niente di quel che ha da dire (chi si prende il disturbo di osservare nota quando le sue interviste sono fatte col pilota automatico dei quarant’anni di mestiere, e quando invece parla con Baricco).
A un certo punto la Ferragni dice una cosa che vale interi trattati sul presente. La dice per dirci che vuole solo essere amata, che è proprio come noi, che è ancora una bambina insicura, ma comunque la dice. Dice che quando lei da piccola guardava le attrici e le modelle pensava che se avesse avuto il loro successo nulla l’avrebbe più turbata, e invece. Ben Affleck saprebbe cosa risponderle, ma il pozzo senza fondo non è il punto importante.
Il punto importante è che Chiara Ferragni è cresciuta prima di TikTok, prima di Instagram, prima dei telefoni con la telecamera, persino prima di “Non è la Rai” (era troppo piccola quando andava in onda). Chiara Ferragni era un’adolescente prima di tutto ciò che riteniamo guasti il sistema di valori degli adolescenti di oggi, eppure quando si ricorda di sé non dice che delle modelle e delle attrici voleva il talento. Dice: il loro successo. Ma forse è un falso storico: voleva dire che da piccola ambiva a essere madre Teresa di Calcutta, poi la Cia ha emesso delle radiazioni di quelle che ti destabilizzano la dialettica.