Possibili scenariL’integrazione tra ambiente e geopolitica sarà al centro dell’incarico di Liu Zhenmin

Il nuovo inviato speciale per il clima di Pechino, che ad aprile incontrerà una delegazione dell’Unione europea, è un diplomatico tout court che fornirà un’interpretazione olistica dei rapporti bilaterali. Un approccio che potrebbe complicare i dialoghi tra il Paese asiatico e l’Occidente: i tempi dell’amicizia tra John Kerry e Xie Zhenhua sono lontani

Liu Zhenmin alla Cop28 (AP Photo/LaPresse)

Quando l’Occidente tornerà a parlare faccia a faccia con la Cina sulle politiche green, non troverà più il volto familiare di Xie Zhenhua, veterano della diplomazia climatica andato in pensione a inizio 2024. Al suo posto ci sarà Liu Zhenmin, il nuovo inviato speciale per il clima nominato da Pechino: un diplomatico tout court che pare destinato ad accentuare un approccio olistico, secondo cui il dialogo climatico è indissolubilmente legato all’intricato dedalo dei rapporti tra la potenza asiatica e l’Occidente. Per semplificare: «Se siamo rivali su tecnologia e intelligenza artificiale, non possiamo essere amici sul clima».

L’incontro con Liu dovrebbe avvenire presto. Secondo Politico, infatti, ad aprile l’Unione europea invierà nella capitale cinese una delegazione per avviare colloqui sul clima. Il gruppo, che dovrebbe essere composto da cinque diplomatici, dovrebbe essere guidato da Tony Agotha, inviato speciale per clima e ambiente. Con lui la tedesca Jennifer Morgan, l’olandese Jaime de Bourbon de Parme e due rappresentanti per Francia e Danimarca. Bruxelles sta cercando di regolarizzare gli scambi con la Cina in materia, anche in previsione del potenziale ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Un secondo mandato presidenziale del tycoon avrebbe senz’altro un impatto sulle politiche climatiche degli Stati Uniti, ma potenzialmente anche sulla tenuta del dialogo con Pechino, che nei mesi scorsi ha registrato alcuni (timidi) passi avanti.

D’altronde, è stato proprio il dialogo sul clima ad aprire la strada agli altri dossier, come dimostra il fatto che il summit dello scorso novembre a San Francisco tra i presidenti Joe Biden e Xi Jinping era stato anticipato di qualche giorno dall’ennesimo round di colloqui tra Xie e l’omologo statunitense John Kerry. Dopo essersi già incontrati lo scorso luglio a Pechino, a novembre i due hanno firmato un documento congiunto, la dichiarazione di Sunnylands, che stabilisce il rafforzamento della cooperazione per affrontare la crisi climatica. 

Tra le altre cose, è stato rilanciato un gruppo di lavoro comune sul potenziamento dell’azione per il clima negli anni 2020. Seppure gli impegni generali restino ancora sfuggenti e le prospettive dei due principali inquinatori del mondo divergano su molti punti, si è trattato di un primo significativo passo, favorito anche dal rapporto personale tra Kerry e Xie. I due si sono definiti più volte «vecchi amici», sottolineando di essersi incontrati decine di volte nel corso degli ultimi decenni. Questo rapporto privilegiato non esisterà più, visto il ritiro prima di Xie e poi dello stesso Kerry. Se la futura linea nella politica climatica di Washington dipende molto dall’esito delle presidenziali di novembre, la delegazione di Bruxelles è chiamata a decifrare le intenzioni cinesi e a instaurare un rapporto col successore di Xie. 

Ma chi è Liu? Nato a Tianjin, a poche decine di chilometri da Pechino, è stato protagonista di una carriera trentennale nel ministero degli Esteri. Tra i vari incarichi, è stato ambasciatore e rappresentante permanente presso l’Ufficio delle Nazioni unite a Ginevra e altre organizzazioni internazionali in Svizzera. Nel 2013 è stato promosso vice ministro degli Esteri, all’alba del primo mandato presidenziale di Xi. Dal 2017 al 2022 è stato sottosegretario generale presso il Dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite (UN-DESA), con un ampio mandato che comprendeva anche le questioni climatiche. In quella sede si è impegnato anche alla promozione della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta lanciata da Xi. 

Mentre ricopriva quel ruolo è riuscito ad aumentare l’influenza di Pechino presso le organizzazioni internazionali. Nel 2016, le Nazioni unite hanno firmato un accordo decennale con la Cina per investire venti milioni di dollari all’anno in un Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo, metà dei quali destinati a programmi a sostegno degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Secondo i termini dell’accordo, il comitato direttivo del fondo consiglia il Segretario generale delle Nazioni Unite sui progetti da gestire. Zhenmin e tre funzionari del governo cinese facevano parte del comitato direttivo.

Ma Liu, che a differenza di Xie parla un inglese fluente, ha una lunga esperienza anche in campo climatico. È stato infatti consigliere speciale del predecessore alla Cop di Dubai e ha partecipato ai negoziati per la stesura del Protocollo di Kyoto del 1997 e dell’accordo di Parigi del 2015. «Crediamo che nel suo nuovo incarico, l’inviato speciale Liu Zhenmin continuerà a intensificare il dialogo e la cooperazione con tutte le parti e a contribuire alla transizione globale verso uno sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio e alla costruzione di una comunità di vita per l’umanità e la natura», ha dichiarato il ministero degli Esteri cinese al momento della sua nomina.

In molti si aspettano però che Liu porti con sé una sfumatura diversa alla diplomazia climatica cinese. Xie ha costruito la sua carriera all’interno del ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente, che tratta il clima come un dossier a sé stante. Liu è invece da sempre un uomo di spicco del ministero degli Esteri, che inserisce la politica climatica all’interno della strategia diplomatica complessiva della Cina. La scelta di Liu, che ha comunque una lunga esperienza nel settore, sembra confermare la volontà di integrare meglio la politica climatica e la politica estera. Una volontà che nasce dal collegamento sempre più stretto fra questioni climatico-ambientali e geopolitica, ma anche dall’andamento dei rapporti con Stati Uniti e Occidente in generale.

Nonostante i tentativi di Kerry e dell’amministrazione Biden di separare il dossier clima dal resto delle relazioni, infatti, la Cina inserisce il dossier in un’interpretazione olistica dei rapporti bilaterali. Significativa in tal senso una frase pronunciata dal ministro degli Esteri, Wang Yi, proprio a Kerry lo scorso luglio durante il loro incontro a Pechino: «Gli Stati Uniti vogliono trasformare la cooperazione sul clima in un’oasi nelle relazioni bilaterali. Ma se l’oasi è circondata dal deserto, diventerà presto desertificata». Insomma: non può funzionare qualcosa, se non funziona tutto. 

Questo approccio potrebbe dunque accentuarsi con l’avvento di Liu, che ha però dalla sua una profonda conoscenza dello scenario internazionale. Senza contare che le sue capacità nella lingua inglese possono senz’altro facilitare le comunicazioni con i Paesi occidentali e renderle più dirette, per i più ottimisti arrivando anche alla sfera personale come fatto con successo da Kerry e Xie.

Va in ogni caso sempre tenuto a mente che il margine di manovra di Liu, così come quello del suo predecessore, non sarà certo infinito. Anzi, più la questione climatica viene ritenuta cruciale e più forte sarà la supervisione centrale. La posizione cinese è chiara: nessuno spazio a imposizioni o ad accelerazioni sull’agenda derivanti dall’esterno. Resta l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2060 e al raggiungimento del picco delle emissioni prima del 2030. Ma Pechino continua a considerarsi un Paese in via di sviluppo e non intende allinearsi alle richieste occidentali di seguire standard comuni. E, anzi, critica gli Usa, ritenuti primi responsabili dell’aumento delle emissioni dei decenni scorsi, e ritiene inadeguato l’obiettivo di Washington di ridurre l’inquinamento di almeno il cinquanta per cento rispetto ai livelli del 2005 entro la fine di questo decennio.

In attesa delle elezioni americane, diventa dunque ancora più cruciale che l’Unione europea trovi una chiave di dialogo con la Cina in materia di clima. Tenendo presente che, con ogni probabilità, a Pechino saranno meno disposti a cooperare se si andrà avanti col piano dell’introduzione di dazi sulle auto elettriche.

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