Il solito Matteo Salvini, la Giorgia Meloni che in molti non si aspettano, e invece: un evento minore e un evento imprevisto, e il centrodestra cammina sul filo. Primo: la Sardegna. Non è una regione che possa aiutare i profeti a intuire il futuro politico dell’Italia, tuttavia alcuni segnali sono inequivocabili. Intanto, Giorgia Meloni non è Matteo Renzi. Le prime regionali da presidente del Consiglio lui le vinse, lei perde nonostante formidabili sondaggi. Di più. Se la litigiosità interna a una coalizione ti porta a fare scelte di candidati alla presidenza sbagliate, l’elettore si indigna e non ti vota.
Di più. Salvini. Per ricavarsi uno spazio sta spostando la Lega su posizioni estremiste, una destra becera che non si capisce come possa piacere a imprenditori, professionisti e ceto medio occupato del Nord. E infatti il consenso precipita. La ribellione del Veneto di Luca Zaia contro Matteo temo sia figlia di questa considerazione, sommata al destino di un presidente di regione amatissimo ma dal destino incerto, ora che l’ipotesi del terzo mandato è stata archiviata.
Il fatto nuovo è che la Lega non ha più una politica, si arrabatta strappando a morsi l’agenda Meloni pur di guadagnare un attimo di visibilità. La Lega non è più l’alfiere della Padania e della secessione, non può più essere il partito antimigranti, visto che occupa una posizione di governo e quel fenomeno dovrebbe, appunto, governarlo. Non è nemmeno il partito di Salvini e basta – Salvini nel simbolo, intendo – perché quel nome calamita solo problemi da parecchio tempo. Insomma, la Lega cos’è? Qual è la sua ragione sociale?
Secondo: i manganelli. Abbatterli su un gruppo di studenti a viso scoperto e a mani nude è da vigliacchi. Peggio: l’immagine di uno Stato squadrista. Ha rimesso le cose al loro posto la dichiarazione del Presidente della Repubblica: ferma, chiara, severa. Peccato che la presidente del Consiglio abbia voluto l’ultima parola: sbagliata, fuori luogo, un dito nell’occhio. E preoccupante se viene dal capo del governo: «Pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni alla polizia», proprio quando il ministro dell’Interno, a Montecitorio, dichiara che «a Pisa è stata violata la legge… e giungere al contatto fisico con i minorenni è comunque una sconfitta».
Gli sforzi di Meloni in politica estera proprio non sono paragonabili ai suoi comportamenti in patria. Troppo spesso, quando tocchi temi cari alla sua cultura di origine, reagisce come un giocattolo a molla venendo meno al dovere istituzionale cui la sua funzione la obbliga. Ben prima di Sergio Mattarella, toccava a lei condannare quel manipolo di poliziotti – quel manipolo, non la polizia in toto, che nessuno, tantomeno il presidente Mattarella, ha offeso – che ha manganellato ragazze e ragazzi in corteo.
Proteggere la libertà di protestare, dunque la libertà di pensiero, così come i diritti fondamentali della persona infissi nella Costituzione, è la prima missione di chi riveste quella carica. È colpevole che non lo abbia fatto né subito né mai; è indecoroso che scenda in campo con una dichiarazione che attacca il Presidente della Repubblica intervenuto a tutela dello spirito dei principi base della Carta. La ricerca del consenso non può mai – sottolineo: mai! – entrare in rotta di collisione con i valori fondanti della Repubblica. È la prova che la storia non è maestra di niente, tendono a prevalere le passioni. E quelle di Giorgia, pulsioni antiche non del tutto messe a riposo, cominciano a preoccupare.