Come qualche lettore potrebbe avere già avuto occasione di notare, non sono un fervente sostenitore del maggioritario e delle riforme costituzionali con cui da trent’anni in Italia si cerca di «completare la transizione» (qualunque cosa voglia dire una simile espressione, tanto più dopo trent’anni: voi cosa pensereste di un amico che sostenga, per trent’anni filati, di attraversare un periodo di transizione?). Lo sono stato, come tutti, negli anni novanta, poi ho cominciato a pensare che fosse il caso di tirare un bilancio dei costi e dei benefici portati da quell’infatuazione collettiva per il bipolarismo, il modello anglossassone e tutto il resto del repertorio. Ma non è di questo che vorrei parlare.
Non è per tornare a discuterne nel merito, infatti, che vorrei rivolgermi oggi ai tanti infaticabili super riformisti impegnati in questi giorni, ancora una volta, a organizzare iniziative e scrivere appelli affinché non si lasci cadere l’occasione di portare finalmente a compimento le riforme. Il punto è che l’occasione, questa volta, non è data solo dalle discutibili proposte del centrodestra sul premierato (con premio di maggioranza garantito nella legge elettorale), con tutte le possibili varianti, a mio personale parere ininfluenti, presentate dai super riformisti come terreno di mediazione e d’incontro. Questo, al massimo, è il dito.
La luna è l’inusitato – e premeditato – attacco al Quirinale voluto dalla presidente del Consiglio, prima con la nota dell’ufficio stampa di Fratelli d’Italia, non certo una voce dal sen fuggita e già gravissima di per sé, in cui si diceva testualmente: «La sinistra che spalleggia i violenti è la causa dei disordini ai quali abbiamo assistito» (sulla falsariga del copione già visto col caso Cospito). E poi con l’intervista data mercoledì da Giorgia Meloni in prima persona a Tg2 Post, contenente un chiarissimo, diretto e minaccioso riferimento a Sergio Mattarella: «Io penso che sia molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra».
Come si può pensare di appoggiare una riforma che punta a togliere al presidente della Repubblica la principale delle sue prerogative (da cui discende l’efficacia di tutte le altre) e cioè il potere di scioglimento delle Camere e di nomina del presidente del Consiglio (che con la riforma si ridurrebbe a pura formalità) in accordo con quella stessa presidente del Consiglio che già oggi, prima ancora di avere ricevuto i poteri e la superiore legittimazione cui ambisce, tenta con ogni evidenza di intimidire il Capo dello stato, aprendo un conflitto istituzionale senza precedenti (se non ai tempi del tragicomico impeachment invocato dal Movimento 5 stelle, e durato poco più di 24 ore)?
Come si può pensare di continuare a invocare riforme condivise, spirito costituente e dialogo istituzionale, mentre di fatto si finisce per dare man forte a un così evidente tentativo di alterare l’equilibrio del sistema, per rimuovere qualunque contrappeso al potere della presidente del Consiglio?
Il Papeete non è il luogo adatto per un’assemblea costituente. Se Meloni vuole i pieni poteri, facciamo almeno in modo che se li debba sudare, invece di consegnarglieli già pronti e infiocchettati, per amore delle nostre fissazioni di ingegneria istituzionale, che peraltro in questi trent’anni hanno prodotto solo uno stuolo di aspiranti governatori, signorotti e viceré praticamente inamovibili e indiscutibili. Piccoli imperatori locali che adesso, con la battaglia per la rimozione del limite dei due mandati, pretendono naturalmente di restare in carica a vita, come ogni monarca che si rispetti. Siamo proprio sicuri di voler vedere lo stesso spettacolo anche a Palazzo Chigi?