Il sorpassoIl costo del lavoro italiano cresce meno di quello europeo

I salari sono aumentati negli ultimi anni, ma siamo ancora il fanalino di coda dell’Unione europea. L’aumento degli stipendi non sta andando di pari passo rispetto a quello dell’inflazione: il rischio è di diventare competitivi solo sul prezzo e non più sulla qualità

Il sorpasso è avvenuto nel 2021, poi la distanza si è man mano allargata. Parliamo del costo del lavoro che in Italia tre anni fa è diventato inferiore a quello medio europeo: 28,7 euro all’ora contro 28,8. Invece, un dipendente dell’Unione europea l’anno scorso è costato 31,8 euro, sempre all’ora, mentre in Italia 29,8. Quella che nel 2008 era una differenza positiva a favore dell’Italia di 3,6 euro, quindici anni dopo è diventata una negativa di tre. E stiamo parlando solo delle aziende con più di dieci addetti, probabilmente la differenza sarebbe maggiore se Eurostat prendesse in considerazione anche le microimprese.

Si tratta di un fenomeno cominciato da tempo, ma negli ultimi anni ha assunto un significato in più, non solo perché ha prodotto il celebre sorpasso, ma soprattutto perché è alla base dell’accelerazione dell’occupazione che sta interessando l’Italia. Nel nostro Paese, tra la fine del 2019 e la fine del 2023, il costo del lavoro è cresciuto del 6,49 per cento, non molto di più di quanto fosse salito nei quattro anni precedenti (4,86 per cento), nonostante nel periodo più recente l’inflazione sia stata del sedici per cento, mentre tra l’ultimo trimestre del 2015 e l’ultimo del 2019 era stata del 2,4 per cento. Al contrario, nell’Unione Europea l’aumento dei prezzi ha avuto un impatto molto più visibile sui salari: il costo del lavoro medio europeo è passato da una crescita del 10,37 per cento nei quattro anni precedenti al Covid a uno del 16,24 per cento negli anni successivi.

Dati Eurostat

Il maggiore gap tra i numeri italiani ed europei ha reso possibile il sorpasso del costo del lavoro di quest’ultimi. Nel nostro Paese l’incremento inferiore rispetto all’inflazione ha di fatto reso i lavoratori, soprattutto quelli nuovi, più economici per le aziende. Ecco perché c’è più domanda. Ecco perché si assume di più e si è continuato a farlo anche nel 2023 e nei primi due mesi del 2024 nonostante un Prodotto interno lordo che è tornato ai vecchi fasti dello zero virgola.

A realizzare questa dinamica ha contribuito molto l’andamento del cuneo fiscale, ovvero dei costi non riguardanti i salari lordi: le imposte e i contributi a carico delle aziende tra fine 2019 e 2023 sono saliti addirittura meno che nel periodo precedente, del cinque per cento contro il 7,22 per cento. Il cuneo italiano è così aumentato dieci punti meno di quello europeo.

Va riconosciuto che c’è stato un cambio di passo, dopo molto tempo, ma non è stato solo questo a determinare la traiettoria del costo del lavoro: anche i salari lordi sono saliti meno dei prezzi, del 7,02 per cento negli ultimi quattro anni, contro il +16,44 per cento europeo.

Dati Eurostat

In sostanza, la maggiore domanda di lavoratori è stata stimolata non solo dalle minori tasse (fatto certamente positivo), ma anche dai minori stipendi (cosa un po’ meno edificante). L’incremento sia del costo del lavoro che dei salari lordi italiani è stato il più basso d’Europa in entrambi i casi. Gli aumenti che si sono verificati a Est, superiori al cinquanta per cento in Romania, Lituania, Ungheria, Bulgaria, imparagonabili ai nostri, spiegano anche perché ormai non si sente più parlare molto di delocalizzazione a Est in quanto i loro salari sono sempre più vicini ai nostri.

Dati Eurostat

Anche il costo del lavoro dei Paesi avanzati, quelli in cui da tempo gli stipendi sono simili o superiori ai nostri, è salito di più che in Italia: in Spagna è aumentato del 13,55 per cento tra fine 2019 e fine 2023, in Germania del 15,46 per cento, nei Paesi Bassi del 16,38 per cento. Inoltre, è accaduta una cosa interessante: l’Italia è stata un’eccezione rispetto al modello tradizionale secondo cui il maggior incremento dei salari sia laddove il punto di partenza è inferiore. È un modello che tra il quarto trimestre del 2015 e il quarto del 2019 era stato piuttosto rispettato, anche se nel Nord Europa si erano visti aumenti maggiori nonostante i livelli già alti delle retribuzioni, mentre negli ultimi quattro anni questa correlazione si è allentata. Soprattutto i salari dei Paesi mediterranei con stipendi inferiori alla media sono cresciuti meno che in Belgio, Irlanda, Austria, Paesi Bassi, dove erano già superiori. Il caso anomalo, ancora più di Spagna, Grecia, Cipro, è proprio l’Italia, che si distacca nettamente da tutti gli altri.

Dati Eurostat

Una delle cause di questo fenomeno è l’inflazione che altrove in Europa è stata maggiore rispetto all’Italia. Basti pensare all’Estonia, dove dalla fine del 2019 i prezzi sono cresciuti del trentasei per cento, alla Lituania e alla Polonia dove l’andamento è stato simile, all’Ungheria, dove sono aumentati addirittura del 45,5 per cento. Anche in Germania, come in questi luoghi, i rincari energetici hanno picchiato più duro, tuttavia il divario tra l’incremento dei nostri salari e dei loro è superiore a quello presente tra i prezzi. E sarebbe stato ancora maggiore se non fosse stato per una parte della Pubblica amministrazione: i salari lordi di chi lavora nel pubblico, ma non nell’educazione e nella salute, sono cresciuti dell’11,91 per cento, non molto meno di quanto siano aumentati nell’Unione europea (+13,42 per cento). Anche gli incrementi più significativi, come nel settore dell’alloggio e della ristorazione (+11,98 per cento), sono comunque lontani da quelli che si sono verificati altrove nello stesso comparto.

Peggio è andata a chi è impiegato nella scuola, nell’università, negli ospedali, nell’assistenza sanitaria per malati acuti o cronici, esattamente alcuni dei settori maggiormente sotto pressione, a cui mancano sia fondi che personale: in questo caso gli stipendi o non sono cresciuti o lo hanno fatto per meno del due per cento, mentre in Europa tutti i comparti hanno registrato aumenti a doppia cifra.

Dati Eurostat

Certo, quella che è stata di fatto una riduzione in termini reali del costo del lavoro e dei salari ha prodotto un aumento del tasso di occupazione maggiore di quello medio europeo: +2,8 per cento contro +1,9 per cento.  Tuttavia, mentre nel campo degli stipendi siamo stati ultimi, in quello dell’occupazione non siamo stati primi e possiamo dire che non ne è valsa interamente la pena: Sono molte le realtà in cui i posti di lavoro sono saliti più che in Italia nonostante anche le paghe abbiano visto un incremento superiore. È il caso di Polonia, Ungheria, Slovacchia, ma anche di Paesi Bassi e Irlanda, nonché della Grecia.

In sostanza quello in atto è un passaggio obbligato, recuperare competitività e aumentare il numero di lavoratori del Paese con minore crescita della produttività e minore occupazione, e per farlo è stato diminuito il costo del prodotto in questione, ovvero il lavoro. Il lavoro sporco, però, è stato lasciato all’inflazione, semplicemente per ottenere quell’effetto non sono stati adeguati i salari all’aumento dei prezzi. Ora, perché questo sacrificio non sia completamente vano e perché non finiamo di trasformarci in una realtà che compete solo sul prezzo, è il momento, dopo avere abbassato i costi del lavoro, di aumentarne il valore e la qualità. Perché alla fine chi compra, che sia l’imprenditore che assume e, ancora di più, il Paese che importa ciò che produciamo, è a questo che guarda.

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