Oltre il velo di MayaLe due libertà di Benjamin Constant e la crisi dell’Occidente

Nonostante i campanelli d’allarme, Europa e Stati Uniti hanno continuato a pensare che le democrazie liberali non potessero vacillare, ma il forte individualismo nelle società moderne potrebbe portare alla loro disfatta

AP/LaPresse

Le crisi internazionali in corso, la guerra iniziata due anni fa dalla Russia nell’Europa stessa, il massacro del 7 ottobre e quello che ne è seguito a Gaza e gli attacchi tra Israele e Iran devono farci riflettere su quali rischi stia correndo la civiltà occidentale. Siamo certi che i valori delle nostre democrazie liberali, che si sono formati lentamente e gradualmente a partire dalla civiltà greco-romana ma sono giunti a completo riconoscimento solo dopo la Seconda guerra mondiale, non siano a rischio?

Dopo il 1989 ci siamo illusi che i nostri valori di libertà, tolleranza, confronto delle idee nel reciproco rispetto, cooperazione e solidarietà, controllo democratico dei poteri, ed economia di mercato sarebbero divenuti universalmente accettati e promossi. Il crollo improvviso e inatteso del muro di Berlino e della cortina di ferro come anche il loro dissolvimento senza macerie, quasi fossero stati solo cortine di nebbia, ci hanno introdotto a una sorta di paradiso terrestre dell’ottimismo.

E, quali novelli Candidi, ci siamo adagiati per un trentennio in una realtà immaginaria e illusoria, trascurando i campanelli d’allarme. Eppure, abbiamo avuti diversi segnali che non tutto stesse andando per il verso giusto nell’ultimo ventennio.

Il massimo successo dell’Occidente e la massima espansione delle democrazie si sono realizzati nel quindicennio successivo alla caduta del muro, quando in Europa anche i Paesi dell’Est, dopo la caduta dei regimi autoritari di destra in Grecia, Portogallo e Spagna, hanno adottato regimi democratici ed era ipotizzabile che potesse farlo anche la Russia.

Nel 2004 l’Unione europea si è ampliata, passando da quindici membri a ventisette, includendo otto paesi dell’Est Europa, tra cui i tre baltici, che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica, e altri quattro che avevano fatto parte del patto di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), mentre la Germania Orientale era già entrata con l’unificazione tedesca.

Quando nel 2007 l’Unione europea raggiunse la massima espansione ammettendo gli ultimi due Paesi del patto di Varsavia, la Romania e la Bulgaria, era tuttavia già iniziata la fase negativa del ciclo geopolitico, che è peggiorata sino alla crisi in corso. A metà del 2005 i francesi e gli olandesi si erano infatti espressi in maggioranza negativamente nei referendum di ratifica della Costituzione europea, con l’effetto di bloccare l’intero processo e di mandare la Costituzione su un binario morto. Quello è stato il vero punto di svolta, molto prima della Brexit e dei vari movimenti nazionali sovranisti e antieuro.

Perché i popoli europei non hanno compreso la necessità di una cittadinanza europea accanto a quella nazionale, e di un salto di qualità nella cooperazione tra gli Stati europei che attraverso la Costituzione avrebbe creato le condizioni per una possibile federazione, oltre che accresciuto le garanzie per le nostre libertà e per la nostra sicurezza?

Quando la sua ratifica è avvenuta tramite voto parlamentare è andata in porto quasi all’unanimità, mentre i quattro referendum hanno avuto esito negativo in due casi, e anche in Lussemburgo, storico europeista e padre fondatore di tutte le istituzioni comunitarie, il quarantatré per cento dei votanti si espresse in maniera contraria. Solo gli spagnoli sostennero in massa la Costituzione, portando il sì quasi al settantasette per cento.

Vi è stata dunque una dicotomia, uno scollamento, tra valutazione dei parlamenti e valutazione diretta dei popoli. Le opinioni pubbliche non sembravano più allineate con quelle dei rappresentanti eletti poco tempo prima. Lo stesso si è ripetuto con esiti ancora più traumatici nel successivo referendum britannico che ha avviato la Brexit. E non parliamo dei diversi movimenti populisti che si sono diffusi in molti paesi e hanno raggiunto (per ora) il culmine nel 2016 con l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti.

Quale può essere la spiegazione di questa incapacità politica dei popoli persino nelle storiche e consolidate democrazie liberali? L’interpretazione che ritengo più adeguata si basa su un carattere fondamentale della modernità del mondo occidentale, ossia la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra agire individuale e agire collettivo. La sfera privata prevede il perseguimento individuale del proprio benessere, incluso quello materiale, secondo i propri valori e le proprie preferenze.

In questo differisce la libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, come illustrato da Benjamin Constant nella famosa conferenza del 1819 “De la liberté des anciens comparée à celle des modernes”: «Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti». Inoltre, «l’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni: di conseguenza non se ne deve mai chieder loro il sacrificio per stabilire la libertà politica».

Ma poiché le libertà individuali debbono essere garantite dalle istituzioni politiche vi è la necessità accanto alla sfera privata di quella pubblica, il cui obiettivo è il perseguimento collettivo della sicurezza e della difesa degli spazi individuali privati dai mali collettivi: «La libertà individuale, lo ripeto, (è) la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile», spiega Constant.

In società complesse non è pensabile che esistano preferenze condivise dall’intera collettività su ciò che è bene. Al più, sono condivise da sottoinsiemi più o meno ampi, ma che non esauriscono l’intero corpo sociale. Un esempio possono essere le preferenze in merito alla religione: se la religione è ricondotta alla sfera privata delle persone allora in una società tollerante possono convivere pacificamente cristiani, musulmani, ebrei, atei, ecc. Un altro esempio sono le preferenze politiche, tutte ammesse nei sistemi liberaldemocratici a condizione che non mettano in discussione e non tentino di sovvertire i medesimi.

Se i gusti e le preferenze su ciò che è bene sono necessariamente divergenti tra le persone, lo stesso non si può dire per i mali, rispetto ai quali non può che esistere identità di giudizio: guerre, epidemie, carestie, cataclismi, violenze sono mali per chiunque si possa ritrovare a subirli, senza sfumature di opinione possibili. Ma quali sono le istituzioni e i mezzi che consentono di perseguire il bene individuale, e quali invece quelli che permettono di sfuggire con efficacia ai mali collettivi? La risposta al primo quesito è facile: scelte individuali non alterate da forze esterne e l’economia di mercato. È altrettanto semplice, ma non così riconosciuta, la risposta al secondo: l’azione politica degli Stati e, al loro interno, l’azione politica dei cittadini.

Noi possiamo comprare sul mercato quasi tutti i «beni» che ci servono, ma non la garanzia delle nostre libertà e la nostra sicurezza. Ecco dunque che torna in campo la libertà degli antichi, quella politica, che occorre invocare come deus ex machina quando le libertà individuali – e con esse anche i godimenti privati – appaiono a rischio. Sul tema tre affermazioni di Constant, a distanza di più di duecento anni, appaiono attualissime e su di esse dobbiamo riflettere.

La prima: «Se la libertà che conviene ai moderni è differente da quella che conveniva agli antichi il dispotismo che era possibile presso gli antichi non è più possibile presso i moderni». Ne siamo ancora certi dopo la prima elezione di Trump, la fine golpista di quel mandato e gli attuali sondaggi sulle prossime elezioni?

La seconda: «Dal fatto che siamo spesso distratti dalla libertà politica più di quanto potevano esserlo (gli antichi) e che nella nostra condizione ordinaria possiamo essere meno appassionati per essa può derivare che talvolta trascuriamo troppo, e sempre a torto, le garanzie che essa ci assicura». Questa è un’analisi di strepitosa validità: dopo il 1989 e la caduta dei regimi in Europa Orientale abbiamo ritenuto che tutti i rischi alle nostre libertà fossero scomparsi, ci siamo cullati nel mercato e abbiamo colpevolmente trascurato la politica. E non ci siamo accorti che non ci troviamo più in una «condizione ordinaria».

Benjamin Constant continua così, con ottimismo che ci farebbe piacere condividere, l’affermazione precedente: «Ma al tempo stesso, poiché teniamo assai più degli antichi alla libertà individuale, noi la difenderemo, se è attaccata, con maggior abilità e tenacia; e per difenderla abbiamo mezzi che gli antichi non avevano». Sui mezzi ha indubbiamente ragione, e quelli di cui possiamo disporre noi ora sono assai più estesi rispetto a quelli della sua epoca. Ma siamo certi che stiamo effettivamente difendendo la nostra libertà individuale «con maggior abilità e tenacia»? Per esempio in relazione alla libertà a rischio degli ucraini?

Infine: «Dal fatto che la libertà moderna differisce dalla libertà antica deriva infatti che essa è altresì minacciata da un pericolo di natura differente. Il pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti soltanto ad assicurarsi la partecipazione al potere sociale, non rinunciassero troppo a buon mercato ai diritti e ai godimenti individuali. Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico». E come dargli torto?

X