Se il fine giustifica i mezzi, come vuole il celebre detto machiavellico che Machiavelli non disse mai, la settimana giustifica il fine? Ossia il fine settimana, che non è lo scopo della settimana, ma i suoi due giorni finali, sabato e domenica: in altri termini la sua fine, che nel passaggio dalla forma analitica con preposizione articolata (“la fine della settimana”) a quella ellittica, attestata nella nostra lingua fin dalla prima metà del secolo scorso, ha cambiato genere ed è divenuta sorprendentemente maschile. Generando, sulla sua scia, una serie crescente di sintagmi similari, prevalentemente declinati al maschile, da “fine mese” a “fine anno”, “fine stagione”, “fine torneo”, “fine campionato”, “fine corso”, “fine carriera”, “fine mandato”, “fine settennato”, “fine gestione”, fino a quello da qualche tempo più utilizzato – e dibattuto – di tutti, ossia “fine vita”.
Ma se la maschilizzazione mette al riparo da pur improbabili confusioni quando il secondo elemento del sintagma è femminile – perché dire, per esempio, “la fine gestione” potrebbe in teoria dare luogo a equivoci, se si scambiasse “fine” per un aggettivo –, per lo stesso motivo la situazione si ribalta quando il secondo elemento è maschile (il “fine corso” non è un corso raffinato, ma qualche stordito potrebbe anche crederlo). E allora com’è accaduto che la fine abbia cambiato genere, trascinando sulla sponda maschile l’intera unità sintattica?
Per la verità già in latino il sostantivo finis – nelle due accezioni di fondo, “la fine, il termine” e “il fine, lo scopo” – era per così dire genderfluid. A titolo di esempio, in relazione al primo significato, possiamo citare Tacito che, riferendosi alla morte di Agricola, scriveva al maschile “finis vitae eius nobis luctuosus”, “la fine della sua vita fu per noi un evento luttuoso” (Agricola, 43); mentre Lucrezio constatava al femminile che “certa quidem finis vitae mortalibus adstat”, “c’è una fine fissata per la vita dei mortali” (De rerum natura, III, 1078). Transitando nella lingua italiana, invece, questo sostantivo ha definito meglio il proprio genere, declinandosi al maschile quando sta per “scopo, termine a cui è diretta una cosa, un’azione” (vocabolario Treccani), ma al femminile quando significa “l’ultima parte, l’ultimo tempo di una cosa, il punto o il momento in cui questa cessa” (ibidem) oppure “l’esito, la riuscita” (in quest’ultima accezione può tuttavia presentarsi pure sotto fattezze maschili: “fare una brutta fine”, e però “portare a buon fine).
Il fine settimana è indubitabilmente l’ultima parte della settimana: perché allora declinarlo al maschile? La questione ha sollecitato la curiosità di molti navigatori di Internet, e in tempi di crociate transfemministe una risposta tra il serio e il faceto, accompagnata dall’emoji della faccina con lacrimuccia, è “perché siamo ancora in una società maschilista e patriarcale”. Battute a parte, potendo escludere che si tratti di un recupero dell’ambivalenza insita nell’etimo latino, la spiegazione più ovvia è che c’entri l’influenza del termine inglese di cui il nostro sintagma è il calco morfologico.
Attestata Oltremanica fin dal XIII-XIV secolo (l’Oxford English Dictionary ne ravvisa le prime occorrenze negli scritti dello storico Robert Mannyng) e divenuta di uso comune nell’ultimo quarto dell’Ottocento, la parola weekend è arrivata anche da noi nel corso del Novecento, diffondendosi in coincidenza con il boom economico e le sue nuove abitudini. E siccome l’inglese non conosce distinzioni di genere per i sostantivi, quando il forestierismo non è istintivamente riconducibile a un traducente femminile (per esempio: “la review”), la nostra lingua lo accoglie assegnandogli il maschile come genere non marcato. Nella parola week – dal proto-germanico wikon, “svolta, successione, cambiamento”, a sua volta dal proto-indoeuropeo weyg-/weyk-, “piegare, avvolgere, girare” – non è infatti immediatamente riconoscibile la nostra “settimana”, come del resto in end non è immediatamente riconoscibile il sostantivo “fine”. Di conseguenza weekend è trattato in italiano come un termine maschile, e il genere del prestito si è automaticamente riprodotto nella forma adattata “fine settimana”.
Senonché la spiegazione di come verosimilmente deve essersi originata la maschilizzazione di “fine settimana” non ne è di per sé la giustificazione in punto di grammatica. E tantomeno lo è nel caso dei sintagmi che a questo si conformano, come “fine mese”, “fine stagione” e gli altri menzionati più sopra, che a differenza di “fine settimana” non nascono come adattamenti di prestiti dall’inglese. Bisogna allora avanzare un’ulteriore ipotesi, che in queste espressioni sia sentito come sottinteso un iperonimo temporale di genere maschile, quale, appunto, tempo o periodo: “il (tempo di) fine settimana”, “il (periodo di) fine stagione”.
Si tratta di una giustificazione ex post, puramente teorica, perché per esempio il francese non avverte la necessità di sottintendere alcunché e declina tranquillamente al femminile: “La fin semaine”. Tuttavia – per tornare alla questione iniziale –, in virtù dell’ipotetico sottinteso la settimana e tutti gli altri secondi elementi sono effettivamente in grado di giustificare il fine: il sintagma sta in piedi. Purché non continui a moltiplicarsi senza freni. Perché è vero, ci sono le esigenze della concisione, della sintesi e della brevità espressiva, così efficacemente soddisfatte nella lingua inglese; ma tra “fine settimana” e “fine della settimana” la differenza è di appena due sillabe. E in un linguaggio quotidiano infarcito di ridondanze idiote come “quello che è” e con(de)generi plastismi che fastidio possono arrecare due piccole sillabe in più?