La domanda oggi è terribilmente semplice: chi può garantire a Israele che l’Iran dei Pasdaran non ripeta l’attacco missilistico del 13 aprile e un nuovo pogrom come quello del 7 ottobre attaccando dal Libano? La risposta è netta: nessuno, non gli Stati Uniti, non l’Europa e men che meno l’inutile Onu. Così come nessuno ha bloccato i continui lanci di missili dal Libano e neanche riesce a frenare l’attività corsara degli Houti nello Stretto di Bab el Mandeb, nonostante i danni enormi che le minacce alla navigazione stanno portando all’economia europea. Questa domanda inevasa indebolisce gli appelli a non rispondere all’attacco missilistico dei Pasdaran che giungono a Israele da Joe Biden, dal G7, dall’Europa.
Per quale ragione Israele deve essere costretto sempre alla difensiva nei confronti dell’Iran, di Hamas, di Hezbollah e degli Houti? Perché nessuno si fa avanti per tagliare la testa del serpente che sta a Teheran, che da un decennio destabilizza nel sangue il Medio Oriente e che persegue con lucida freddezza il proposito di eliminare Israele dalla faccia della Terra?
La risposta è assieme semplice e complessa. È semplice perché l’Iran è protetto da un sistema di alleanze internazionali con Russia e Cina che fanno sì che il tentativo di destabilizzare il regime degli Ayatollah con un’iniziativa bellica può effettivamente, come dice Marco Minniti, innescare un «meccanismo Sarajevo» e sfociare in un conflitto epocale. Il problema è che, visto da Israele, cioè dall’avamposto dell’Occidente, Sarajevo, ovvero il colpo di pistola che scatena il conflitto mondiale c’è già stato, ed è il pogrom di Hamas del 7 ottobre.
La risposta è anche complessa perché – esattamente come avvenne con Hitler e il nazismo nel 1938 – l’Occidente sbaglia l’analisi degli obiettivi del regime iraniano. Pensa, ammalato di geopolitica, che i Pasdaran e gli Ayatollah perseguano un allargamento nazionalista del Lebensraum, dello spazio vitale, della terra, e non colgono il punto essenziale che solo Winston Churchill ai tempi del nazismo colse: l’Iran degli Ayatollah e dei Pasdaran, come i nazisti, persegue una strategia ideologica e apocalittica il cui punto centrale è la «soluzione finale», la «scomparsa di Israele dalla faccia della terra», la «distruzione dell’entità sionista».
Di nuovo, l’antisemitismo è il motore della storia, della grande Storia, non solo della cronaca. Il rifiuto islamico di Israele prescinde infatti dalla questione della terra, dalla logica dei «due Stati», rifiutati da arabi e palestinesi per ben sei volte, è invece permeato dal millenario, coranico, odio islamico per gli ebrei «che portano disordine e dissidi nella comunità musulmana».
Da cento anni in qua, per l’Islam, l’offesa da lavare nel sangue è Gerusalemme e quindi la Palestina sotto il governo degli ebrei. Odio talmente dissennato che arriva a negare che Gerusalemme sia stata ebraica, che sulla Spianata delle Moschee sorgesse il Tempio degli ebrei. La soluzione islamica della questione ebraica è il modello del pogrom del 7 ottobre, esaltato e salutato con gioia dal presidente iraniano Ebrahim Raisi.
La novità enorme emersa il 13 aprile 2024 è che alcuni Stati arabi, in primis l’Arabia Saudita, che pure per un secolo si sono posti l’obiettivo di distruggere Israele, considerata la concretizzazione dei Protocolli dei Savi di Sion, da un decennio in qua hanno preso atto non solo che questa via è impraticabile, perché gli ebrei in armi sono diventati una potenza militare d’acciaio, ma anche che senza scendere a patti con lo Stato di Israele, senza una collaborazione con l’energia culturale, scientifica ed economica di Israele, non hanno una sola possibilità di superare il modello medievale della propria economia: una ricchezza, un budget, un Pil che dipendono solo dallo sfruttamento dei pozzi, del petrolio e del gas.
Non solo, questi Paesi arabi hanno preso atto che, senza un accordo con Israele, non hanno alcuna possibilità di arginare l’espansionismo aggressivo di una rivoluzione islamica iraniana che punta apertamente a ripristinare la potenza dell’Impero persiano. Ecco allora che per i paesi del Golfo le ragioni della geopolitica hanno ormai preso il sopravvento sull’ideologia, sul contrasto apocalittico al sionismo, sull’odio per gli ebrei e si è arrivati sino al Patto di Abramo, si è arrivati sino alla collaborazione militare attiva araba con Israele per abbattere il 13 aprile i trecento missili iraniani lanciati sullo Stato dei sionisti.
Questo il quadro in cui si deve muovere oggi Israele: da una parte la furia distruttiva apocalittica degli iraniani, dall’altra la collaborazione con i paesi del Golfo disposti a impedire che le aggressioni iraniane, ma non disponibili a entrare in conflitto aperto con Teheran, anche perché non sono in grado di sostenerlo dal punto di vista militare. L’Arabia Saudita ha forze armate fragili e incapaci, come ben si è visto nella guerra civile nello Yemen, mentre gli Emirati dispongono solo di un’aviazione eccellente.
Dunque, oggi, per tornare alla domanda iniziale, solo Israele può arrestare e contrastare l’aggressione dei Pasdaran e gli Ayatollah dal Libano, dalla Siria, da Hamas e dallo Yemen. Per farlo è costretta, dopo il 7 ottobre e il 13 aprile, a colpire la testa del serpente: il cuore del regime iraniano, il suo apparato militare. Deve, e lo può fare, umiliare la tracotanza dei Pasdaran.
Lo farà, ignorando gli appelli a una nuova resa sullo stile di Monaco 1938 che arrivano dall’Europa e dall’Onu. Lo farà, bombarderà i Pasdaran e l’Iran, però definendo tempi e modi, come sta facendo in questi giorni, non solo con Washington, ma anche con Ryiad e Abu Dhabi. Sauditi ed emiratini non collaboreranno attivamente al bombardamento delle basi dei Pasdaran. Ma lasceranno fare.