Filiera inesistenteLe lacune dell’industria fotovoltaica europea

Il novanta per cento dei pannelli solari installati nell’Unione europea proviene dalla Cina, che domina il mercato in lungo e in largo. La vera questione, al di là dei dazi sui dispositivi provenienti da Pechino, rimane la supply chain

Un parco solare vicino a Halberstadt, in Germania (AP Photo/LaPresse, ph. Matthias Schrader)

Per facilità di collocazione e generale disponibilità della fonte primaria, l’energia solare è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nei mix elettrici “puliti” della transizione ecologica globale. L’Unione europea, che nel 2023 ha raggiunto una capacità di generazione di duecentocinquantanove gigawatt (due anni prima non arrivava a centosessantacinque gigawatt), la considera un «elemento costitutivo» del suo piano per la neutralità climatica. La Commissione stima anche che entro il 2030, o forse già nel 2025, ci saranno un milione di posti di lavoro legati all’energia solare a livello comunitario. Non è chiaro però che tipo di posti di lavoro saranno: gli impiegati del settore, cioè, si occuperanno della costruzione dei pannelli fotovoltaici, o si limiteranno all’installazione di dispositivi realizzati altrove?

La questione energetica si intreccia non solo con quella climatica, ma anche con la tematica economica e tecnologica. Il novantacinque per cento dei moduli solari installati ora nell’Ue è stato importato precedentemente dalla Cina, il maggiore produttore mondiale. È un dato che cozza con i target industriali di Bruxelles, che con il Net-zero industry act ha fissato per il 2030 un obiettivo minimo di produzione interna del quaranta per cento per tutte le cosiddette “tecnologie pulite”, pannelli fotovoltaici inclusi.

Ci si domanda allora se la manifattura europea – o italiana, nel nostro caso specifico – riuscirà a reggere il confronto con quella cinese, molto più economica non soltanto per i minori costi del lavoro e dell’energia ma anche per via del dominio sulla filiera: la Cina vale circa l’ottanta per cento della capacità produttiva mondiale di polisilicio, ad esempio, un materiale di base indispensabile per i pannelli solari. Si trova in Cina anche il novantacinque per cento della capacità produttiva di wafer, l’ottantacinque per cento di celle e il settantacinque per cento di moduli.

La Commissione europea ha calcolato che i cinesi riescono a produrre pannelli solari a un costo di 16-18,9 centesimi per watt di capacità di generazione; le aziende americane sono sui ventotto centesimi per watt e quelle europee intorno ai 24,3-30 centesimi. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, i costi di manifattura dei dispositivi fotovoltaici in Cina sono del trentacinque per cento inferiori rispetto all’Europa, del venti per cento inferiori rispetto agli Stati Uniti e del dieci per cento inferiori rispetto all’India. 

Questi dati rendono «la competitività dei costi una sfida fondamentale per la diversificazione delle catene di approvvigionamento», notava l’organizzazione, «ma le politiche governative possono contribuire a colmare il divario». Nell’agosto 2022 gli Stati Uniti hanno approvato una legge da trecentosessantanove miliardi di dollari per il supporto alla manifattura interna di tecnologie pulite, l’Inflation reduction act; l’equivalente europea – il Net-zero industry act di cui sopra – è invece ancora in fase di definizione e non sembra nemmeno poter contare su risorse economiche fresche.

Tuttavia, uno studio di BloombergNEF sostiene che nemmeno i generosi sussidi della Casa Bianca riusciranno a proteggere la (ri)nascente manifattura americana dall’economicissima concorrenza cinese. In Cina, infatti, è in corso un’agguerrita competizione tra i numerosi produttori di dispositivi solari dalla quale usciranno vittoriose solo le aziende più efficienti e più solide. Dall’agosto 2022 al gennaio 2024 i prezzi dei wafer (i quadrati di silicio che si assemblano a formare il pannello) sono crollati del settantacinque per cento a causa della sovraccapacità del mercato fotovoltaico interno. E così, non trovando sbocchi in patria, le celle e i moduli cinesi si rivolgono all’estero, travolgendo industrie incapaci di reggere il confronto. La società svizzera Meyer Burger, che si prepara a chiudere la fabbrica tedesca di Freiberg, aveva spiegato che il «forte aumento della sovraccapacità produttiva cinese […] ha portato a un significativo eccesso di offerta e a una distorsione senza precedenti del mercato solare europeo nel 2023».

In Italia, Enel sta ristrutturando il sito di 3Sun a Catania per farne il più grande polo produttivo europeo di pannelli fotovoltaici, capace – nelle intenzioni – di reggere il confronto con gli apparecchi cinesi grazie all’innovazione tecnologica. Uno sforzo sostenuto dal governo attraverso un investimento da novanta milioni di euro provenienti dal Pnrr. «Dobbiamo essere in grado di produrre la tecnologia che è fondamentale per le nostre scelte strategiche», ha dichiarato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma è possibile costruire dispositivi solari competitivi in Italia?

Secondo uno studio di The European House – Ambrosetti, condotto proprio in collaborazione con Enel, «produrre pannelli fotovoltaici e batterie in Italia e nell’Unione europea è attualmente più costoso che in Cina, a causa dei maggiori costi d’investimento […], di tempi di costruzione delle fabbriche più lunghi, dei maggiori costi energetici, della mancanza di specializzazione (competenze e settori adiacenti) e integrazione (estrazione e raffinazione delle materie prime) nelle fasi upstream». 

E ancora: «il costo d’investimento per la realizzazione di impianti produttivi di pannelli fotovoltaici in Italia – e in Ue – è tra 2,2 e 5,6 volte superiore alla Cina» per via dei maggiori costi dell’energia, del lavoro e delle emissioni di carbonio. «In secondo luogo», prosegue il paper, «sviluppare impianti produttivi richiede più tempo in Europa rispetto a quanto accada in Cina»: prima che una fabbrica europea di pannelli solari entri in funzione possono passare dai venti ai quaranta mesi; in Cina bastano dodici-ventiquattro mesi.

All’Italia, poi, manca la filiera di supporto al fotovoltaico. Nel nostro Paese «non vi sono fornitori di equipment nei segmenti upstream», cioè a monte del ciclo manifatturiero, mentre le aziende cinesi possono fare affidamento anche su produttori di materiali “adiacenti” come il vetro e l’alluminio per i pannelli.

Un’eventuale reintroduzione dei dazi europei sui dispositivi solari cinesi potrebbe ridurre il divario di prezzo, sacrificando forse le installazioni di energia pulita. Ma la vera questione, evidenziata dal rapporto di Ambrosetti, è la supply chain, che se ben sviluppata permette di raggiungere l’economia di scala. Pechino ce l’ha, l’Unione no: la Commissione ammette che oltre il novanta per cento dei wafer e dei lingotti di silicio per i pannelli fotovoltaici europei viene importato dalla Cina.

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