Ambizione continentaleLe entusiasmanti opportunità della rinnovata alleanza tra Europa e Africa

Nel 2024 è entrato in vigore il nuovo accordo di partenariato tra l’unione europea e quarantotto paesi africani, siglato il 15 novembre 2023 per rafforzare la capacità di affrontare insieme le sfide globali

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 59 di We – World Energy, il magazine di Eni

L’accordo di Samoa coinvolge due miliardi di persone e rappresenta il quadro giuridico e politico per le relazioni tra l’Unione europea e settantanove Paesi, di cui quarantotto africani, nei prossimi venti anni. È all’interno di questo quadro, che sostituisce lo storico accordo di Cotonou del 2000, che l’Unione intende svolgere un ruolo geopolitico in Africa, ma anche creare le condizioni per un cambiamento del modo in cui i cittadini europei guardano a questo Continente, troppo spesso con stereotipi culturali e un pessimismo che hanno le loro radici in anni lontani. Per capire meglio l’approccio dell’Unione europea all’Africa bisogna andarsi a leggere le politiche settoriali, che in modo “orizzontale” si occupano, ad esempio, di cambiamento climatico o di gender gap o del confronto sul reperimento e la produzione di materie rare fondamentali, e incrociarle con quelle riferite ai singoli Stati o regioni, come, per esempio, l’Africa sub-sahariana.

Le politiche settoriali hanno obiettivi, accettati da tutti i Paesi europei, che fungono da base di confronto con gli Stati africani: se restiamo agli esempi precedenti, si tratta della decarbonizzazione su cui l’Europa è abbastanza avanti; oppure della progressiva presenza di sempre più donne nel mondo del lavoro; mentre sulle materie prime strategiche, si tratta di regolare il reperimento dei trentaquattro materiali che l’UE ritiene fondamentali per l’innovazione tra cui le diciassette Terre Rare, alcune delle quali sono concentrate in pochi paesi africani; meno di produzione, prevalentemente in mano alla Cina. A questo livello “orizzontale” va aggiunto il livello “verticale” dei singoli programmi nazionali o regionali, come quello per l’Africa Subsahariana, attraverso il quale l’Unione Europea punta al contrasto alla povertà (in Africa circa quattrocento milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà) e all’accesso ai servizi sociali e sanitari di base.

I programmi nazionali variano a seconda della situazione dei singoli Stati a cui sono diretti: e dunque, sempre per fare esempi concreti, se in Burkina Faso si punta sui temi della pace e della coesione sociale con un primo impegno di trecentottantaquattro milioni di euro per il triennio 2021-2024 (slittato di due anni per la pandemia); con il Sudafrica, che è la seconda economia più sviluppata del continente africano e membro dei Brics l’Unione Europea adotta un approccio “multidimensionale”.

Con impegno economico minore che in altri Paesi, centoventinove milioni di euro, ma con una maggiore attenzione alle partnership industriali e al commercio, attraverso la fine dei dazi doganali (eliminati per oltre il novantotto per cento) e il rafforzamento di legami che sono in termini economici già considerevoli: nel 2022 i paesi Ue hanno importato dal Sudafrica beni per quasi trenta miliardi di euro e ne hanno esportati per quasi ventisette miliardi. Parliamo infatti di un Paese in cui il commercio in beni è aumentato di circa il centoventi per cento dalla firma dell’Accordo di Cotonou nel 2000; e dove, nonostante ci siano ancora sacche di povertà estrema (nelle grandi urbanizzazioni di Johannesburg e Città del Capo un sudafricano su due vive sotto la soglia di povertà), gli investimenti stranieri si sono quintuplicati.

Se dal punto di vista delle politiche e degli impegni programmatici l’Unione Europea e l’Africa tendono a stare sulla concretezza degli aiuti economici mirati, della cooperazione economica e sociale e degli obiettivi comuni dichiarati, diverso è il discorso dal punto di politico. Da un lato, finita la “guerra fredda” e gli anni turbolenti seguiti alla fine delle colonie, la condizione degli Stati africani è certamente cambiata e presenta le consuete debolezze ma anche novità di rilievo; dall’altro l’Unione europea sa che in Africa si gioca una partita legata allo sviluppo economico e alla disponibilità di materie fondamentali per l’innovazione digitale e ambientale, una partita in cui scendono in campo anche le grandi potenze mondiali: gli Stati Uniti, con una inversione di tendenza e una maggiore attenzione con la presidenza Biden rispetto al ventennio precedente; certamente la Russia di Putin che sfodera aiuti economici e molto militari; e in maniera continua da quasi venticinque anni la Cina con le sue iniziative economiche multiregionali; infine i paesi arabi e dell’Asia che competono con la Cina nel proporsi come banche di investimento, modelli produttivi e garanti dell’innovazione.

In questa competizione geopolitica l’Unione europea sembra a volte fare la figura del vaso di coccio tra vasi di ferro, anche a causa di una visione del continente africano legata a stereotipi difficili da superare.

Ovviamente c’è un’Africa povera, lo sappiamo. Ma c’è anche una crescita economica di piccole e medie imprese negli Stati con una qualche continuità politica. Ed è soprattutto a queste realtà che bisogna guardare, confrontandosi coi Governi, investendo economicamente sui territori, praticando la diplomazia con continuità per garantire una relazione più fruttuosa. Scegliere quali progetti e programmi, comunitari e di cooperazione anche volontaria e privata, hanno funzionato e quali no, può far crescere realtà innovatrici nel campo del digitale in un Continente dove da decenni ciò che passa sullo smartphone funziona a volte meglio che in certe aree interne e remote dell’Europa.

Ci vorrà insomma realismo nel senso di realpolitik con gli Africani che non sono una nazione unica ma un Continente con cinquantaquattro nazioni. E realismo verso noi stessi: se l’Europa vorrà contare nel Continente e se vorremo cogliere questo Accordo come una grande opportunità per favorire innovazione e sviluppo e un’Africa rising stabile e duratura come quella delle economie asiatiche negli ultimi venti anni.

Roberto Di Giovan Paolo è giornalista, ha collaborato, tra gli altri, con Ansa, Avvenire e Famiglia Cristiana. È stato segretario generale dell’Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. È docente presso l’Università degli studi internazionali di Roma.

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