«Là c’è la tirannia, nei marmi delle statue, al contempo non armonici e falsi […], non solo nel rombo dell’auto che passa nella notte, e si ferma davanti a una porta». Nel 1956, anno della rivoluzione ungherese, fu pubblicata la poesia “Una frase sulla tirannia” di Gyula Illyés, morto a Budapest il 15 aprile di quarantuno anni fa. Pochi anni dopo l’Ungheria avrebbe finalmente riconquistato la sua indipendenza e come gli altri Paesi che erano stati parte del Blocco sovietico si sarebbe ritrovata a dover capire come gestire, tra le altre cose, proprio quelle statue di cui parlava Illyés, e che raffiguravano i più importanti simboli dell’Unione Sovietica, disseminate in giro per le strade di città e paesi.
I nuovi governi dovevano capire cosa fare di queste rovine ingombranti. Una cosa era certa: quei monumenti non potevano restare lì dov’erano, perché sembravano un omaggio al glorioso passato sovietico. A parte questo, però, non esistevano soluzioni chiare da adottare, e così, negli anni, ogni Paese ha preso delle decisioni diverse su come risistemare le statue. Una, condivisa da Ungheria e Lituania, è particolarmente curiosa: qui i monumenti sono stati rimossi, ma non distrutti. Sono stati trasportati in due parchi simili a cimiteri, (il Memento Park a Budapest, e il Park Grutas a Druskininkai, rispettivamente) realizzati in periferia appositamente per ospitarli.
I parchi sono aperti al pubblico, e qui, in uno spazio dove si ha l’impressione di essere «piccoli e vulnerabili», come spiega a Linkiesta Judit Holp, membro dell’amministrazione di Memento Park, i visitatori dovrebbero riuscire a guardare a quelle statue come al riflesso di un regime sanguinario che ha segnato una delle pagine più tragiche nella storia dei due Paesi.
Contemporaneamente, le statue possono essere contestualizzate in maniera ironica. I monumenti, infatti, si inseriscono all’interno di uno spazio ludico dove sono presenti dei gift shop che vendono tazze, poster propagandistici e persino un finto passaporto sovietico. A Park Grutas ci sono perfino un parco giochi e uno zoo, che dovrebbero servire a mettere in ridicolo quelle che in epoca sovietica erano imponenti opere propagandistiche cariche di significato.
Andrea Pinotti, insegnante di Estetica e filosofia dei linguaggi alla Statale di Milano, definisce le sculture in questo contesto “nonumenti”, che diventano una caricatura ma sono anche impregnati di una generosa dose di «ironia postmoderna all’insegna di una nostalgia più o meno compiaciuta».
La parola chiave qui è proprio nostalgia. Le trovate commerciali che accompagnano le visite ai musei sono da considerarsi non come simboli di contro-propaganda, ma come una campagna pubblicitaria (neanche troppo ben riuscita) a tutti gli effetti, che attira nostalgici dell’ideologia sovietica, e soprattutto turisti (specialmente dalle zone occidentali dell’Europa) che non entrano davvero nei parchi per informarsi sulle atrocità del regime, ma per poter raccontare, al loro rientro, ai loro amici di aver vissuto il vero “spazio post sovietico”, quello dove il comunismo c’è e si vede.
Secondo il ricercatore dell’Università di Torino Federico Bellentani, esperto di semiotica dello spazio intervistato da Linkiesta, per chi arriva a Budapest da Italia, Francia o Spagna è difficile cogliere la vena critica che dovrebbe essere in primo piano all’interno del museo: «Per chi non ha grandi conoscenze storiche, il parco è a tutti gli effetti un’attrazione turistica, ed è difficile da analizzare in maniera critica se non si è informati sulla storia dei luoghi che visita. Il turista magari arriva al museo, paga il biglietto, compra un souvenir soviet e, perché no, si mangia pure un panino circondato dalle statue». La riflessione sui crimini del regime che dovrebbe nascere quando si entra nel parco, quindi, viene completamente a mancare.
Per questa ragione è difficile vedere i parchi come un tentativo genuino di depotenziare il regime sovietico. Invece, appaiono più come una becera trovata turistica, che Bellentani è tentato di equiparare a Disneyland. Cosa che alla fine non fa «perché Disneyland almeno è bella».
L’amministrazione di entrambi parchi, però, ha deciso di non inserire pannelli o targhe che raccontino le efferatezze del regime sovietico in quanto «la missione del parco è evocare il periodo storico in cui le opere sono state realizzate» e immergere i visitatori nell’atmosfera dell’epoca, senza alcun tipo di distrazione. Ma in questo modo quello che ne viene fuori è un posto dove chi ancora chi simpatizza con l’ideologia è libero di compiere un vero e proprio pellegrinaggio in un luogo dove i simboli non vengono intaccati da fastidiosi contro-monumenti.
Decidere di conservare le sculture, però, non è necessariamente un male. Sempre Bellentani, che ha svolto le ricerche per il suo dottorato in Estonia, racconta che anche qui molti monumenti sovietici – rimasti a lungo ammassati a terra per le vie di Tallinn – sono stati poi raggruppati in una sala museale. La differenza con Ungheria e Lituania sta nel fatto che, prima di tutto, in Estonia il museo è gratuito. E quindi l’amministrazione non sta cercando di vendere un’attrazione. Inoltre, le statue «sono accompagnate da pannelli che spiegano molto chiaramente la storia del monumento e le ragioni per cui si trova lì». Le sculture così sono contestualizzate in maniera completamente diversa rispetto a Budapest e Druskininkai, perché lo scopo della mostra è esplicitamente educativo.
Non esistono insomma soluzioni univoche applicabili in tutti i Paesi che un tempo facevano parte del blocco sovietico. «Spesso le amministrazioni locali mi contattano per chiedermi cosa sia meglio fare con un certo monumento. Ma l’unica cosa che posso fare effettivamente è suggerirgli di assumere una squadra di esperti che analizzi il contesto specifico in cui si trova quella statua e che suggerisca al governo se sia meglio distruggerla, conservarla, o erigere un contro-monumento», dice Bellentani. E tra l’altro proprio a Budapest si trova un contro-monumento estremamente efficace contro il revisionismo storico di Viktor Orbán.
La soluzione opposta alla conservazione dei monumenti è chiaramente la sua distruzione, che si è concretizzata notoriamente nel “Leninopad” ucraino – traducibile letteralmente «caduta di Lenin» e che si rifà al termine listopad (novembre), ossia «caduta delle foglie» –. Il processo di rimozione delle statue sovietiche a Kyjiv è iniziato nel 2014 e va avanti ancora oggi.
Ragionando in termini di memoria storica, il dubbio riguarda il fatto che, riservando a questi monumenti una sorta di damnatio memoriae, si potrebbe determinare una nazione che non possiede gli strumenti per fronteggiare il proprio – tragico – passato.
Questa è anche l’opinione di Holp, che spiega come nella loro visione «l’assenza sia la causa scatenante dell’oblio», e che quindi mantenere la presenza di simboli, per quanto dolorosa, sia un atto fondamentale per evitare di ricadere negli stessi errori del passato.
Una risposta giusta probabilmente non esiste: ogni Stato e ogni cittadino hanno sentimenti e ricordi distinti nei confronti dei monumenti di epoca sovietica. Alcuni sicuramente vogliono che il ricordo del regime, troppo doloroso per essere affrontato ogni giorno, venga lavato via dalle strade dove passeggiano e dove stanno cercando di creare una nuova quotidianità. Altri, magari, vogliono che quelle statue non siano spostate. Non perché abbiano piacere di vedere i volti dei loro invasori in giro per le città, ma perché quei monumenti li potrebbero voler deturpare con le loro mani, magari tirandogli della vernice o tirandoli giù con un picchetto.