La pasta ripiena, nelle sue tante e diverse versioni, non è solo italiana. Anzi. Si espande a Est, dando quasi ragione alla storia della pasta cinese portata in patria da Marco Polo. In effetti, una leggenda commerciale creata nel 1929 dal Macaroni Journal, rivista dell’Associazione americana di produttori di pasta, che si inventò un marinaio al seguito del navigatore, dal nome profetico di Spaghetti, che avrebbe “rubato” la ricetta per diffonderla in Occidente. Secondo fonti più serie i progenitori di tutti i ravioli sarebbero i jiaozi cinesi.
Comunque sia andata con gli spaghetti e gli agnolotti, o ravioli, questi proseguono oltre confine con gli Idrijski žlikrofi (ravioli di patate di Idria), una pasta ripiena a forma di cappello tipica della Slovenia. Gli ingredienti sono noti: patate, aromi, verdure, pancetta affumicata o lardo, avvolti da un fagottino di pasta sfoglia, serviti con un sugo di carne, o come contorno del gulasch, oppure da soli come primo piatto con il pangrattato.
Benché siano popolarissimi e abbiano ottenuto nel 2010 il primo riconoscimento sloveno di specialità tradizionale garantita da parte dell’Unione Europea, non sono esattamente autoctoni. Pare siano stati introdotti in Slovenia da Ivan Wernberger nel 1814, di ritorno dalla Transilvania ungherese. Dopo alcuni anni, seguendo ricette simili, come ad esempio quella degli Schlickkrapferl carinziani, gli žlikrofi si affermarono come il piatto più famoso di Idria.
Tipici di Kranjska Gora sono invece i krapi, che sempre ravioli sono: alla ricotta, alle pere, con polenta, con farina di grano saraceno, o mista con farina bianca, con polentina di miglio o cipolle fritte e abbondante erba cipollina.
In Ungheria, i dereje sono ravioli dolci, ma non esattamente un dessert, piuttosto un piatto unico, molto ricco di calorie. Sono una pasta ripiena dolce, farcita con marmellata di prugne o altra a piacere, bolliti e serviti con olio e pangrattato cotti insieme allo zucchero.
Con i pierogi polacchi si entra ufficialmente nella grande ed estesa famiglia orientale, composta anche da pelmeni e vareniki, che arriva fino alla Cina, con una grande varietà di forme e impasti. I pierogi si preparano in moltissime versioni, sia dolci che salate, con carne, frutta, formaggio, funghi. Quelli più diffusi e amati, però, sono i pierogi ruskie, ripieni di patate e ricotta, serviti con panna acida ed erba cipollina. A volte si fanno prima bollire e poi si passano in padella con il burro.
In Georgia, i khinkali, grandi e chiusi in cima con una specie di nodo, si trovano di carne di maiale e manzo, ma anche di patate e formaggio. La particolarità è che la carne è messa nell’impasto cruda e quindi il ripieno è quasi brodoso.
I pelmeni, diffusi dalla Siberia fino all’Europa centro-orientale, sono parenti stretti dei pierogi e in una sfoglia sottile, composta di farina, uova e, a volte, latte, racchiudono un ripieno di maiale, agnello, manzo, o qualunque altro tipo di carne aromatizzata con pepe, cipolla, aglio; mischiarne diversi tipi è un’usanza comune. La ricetta tradizionale degli Urali richiede il quarantacinque per cento di manzo, il trentacinque per cento di agnello e il venti per cento di maiale. Vengono serviti con burro o panna acida, ma anche aromatizzati con senape, rafano e aceto.
I varenyky sono invece ucraini e di forma triangolare e si possono realizzare con ripieni di formaggio, fagioli, cipolla, lardo e funghi e si condiscono con burro fuso e panna acida. Ce n’è una variante dolce, ottima per il dessert o come colazione, con ripieno a base di ciliegia o frutti di bosco o ricotta, zucchero e uovo.
E infine, in Cina si trovano quelli che forse sono i capostipiti di tutte queste paste ripiene, gli jiaozi, meglio noti a chi frequenta i ristoranti cinesi come ravioli al vapore. Diffusi e popolarissimi anche in Giappone, dove diventano gyoza e hanno molto più aglio, sono in genere ripieni di carne e/o verdura, e sono avvolti con una pasta sottile sigillata con la pressione delle dita.
Non devono essere confusi con i wonton: i jiaozi hanno una pasta più spessa e ondulata, schiacciata alle estremità, e si mangiano intinti in salsa di soia e aceto di soia o salsa chili piccante, mentre i wonton sono più sottili e sferici, e di solito sono serviti in brodo o fritti. Tanto gli uni come gli altri, tuttavia, si trovano in tante versioni quante la creativa e multiforme cucina orientale può inventarsi: ripieni di mandorle, gamberetti, carni di ogni tipo, soia, verdure e spezie a piacere. Tutto, tranne, ovviamente, il formaggio che non compare mai nelle ricette della tradizione anche se è sempre più presente nei negozi e in tavola.
In Corea si trovano i mandu, un tempo cibo di corte e oggi popolare spuntino, farciti con ogni tipo di carne, pesce e verdure, compreso l’immancabile kimchi, l’onnipresente cavolo fermentato piccante. Sono parenti dei manti turchi e armeni e dei mantu afghani, ovvero pasta ripiena di carne e cipolla con una salsa di yogurt e aglio, e sono stati diffusi in Asia dalle tribù nomadi giunte dall’Asia centrale verso l’Anatolia nel tredicesimo secolo.
Grandi, e rotondi, i momo, i ravioli originari del Nepal e del Tibet, ma presenti anche nel Bhutan e negli stati himalayani dell’India, sono ricchi di aromi e spezie come cumino, cipolla, zenzero, aglio e hanno, soprattutto in Nepal, varianti vegetariane con verza, patate e formaggio. Ci sono gli sha momo: ripieni di manzo o yak, khasi momo, con agnello o montone, i tarkari, con verdure, gli achar momo in salsa di pomodoro tipici di Kathmandu e tante altre varietà.
Sono sicuramente parenti stretti dei buuz mongoli, specialità del Capodanno lunare, ripieni di carne di agnello o montone, cipolle, aglio e semi di finocchio.
Ricordano i tortellini i chuchvara uzbeki, chiamati anche dushpara, dyushbara, tushpara o chuchpara, piccoli tortelli di uova e farina tradizionalmente riempiti con agnello o manzo fritti, cipolle, pepe nero e timo e serviti in un saporito brodo vegetale con pomodoro, carote e cipolle. Se ne trovano varianti in Turchia, Iran, Azerbaijan, Siria e Libano dove all’impasto si aggiungono le noci e sono noti come shish barak.
A questo tripudio di pasta ripiena fa eccezione l’India che, malgrado l’enorme abbondanza e varietà delle sue cucine regionali, non ne è ricca. Ma nemmeno priva. Ed ecco i modak, originari del Maharashtra, che nell’aspetto ricordano i khinkali ma sono dolci, ripieni di cocco, zucchero grezzo, banana, spezie come zafferano e noce moscata, e vengono serviti caldi con burro chiarificato.
Non sono dolcetti qualsiasi, ma il piatto preferito tanto di Ganesha come del Buddha e quindi hanno un ruolo nelle cerimonie religiose induiste e buddiste. Il multilinguismo del subcontinente fa sì che cambino nome a seconda dell’area geografica. Sono kozhukattai in tamil, modhaka in kannada e kudumu in telugu.
E più ci si inoltra nei vari Paesi, più si trovano varietà e assonanze, frutto delle contaminazioni, degli scambi e degli incontri che la cucina favorisce a dispetto di ogni frontiera.
Gli siomay, i ravioli di pesce indonesiani, hanno la stessa origine, e lo stesso nome, degli shumai cantonesi, i ravioli aperti con gamberi e maiale protagonisti di ogni dim sum che si rispetti. I primi a diffonderli infatti furono gli immigrati cinesi, che iniziarono a popolare l’arcipelago durante la dominazione olandese dell’Ottocento. Poi, però, sono stati reinterpretati e nella versione indonesiana sono grossi ravioli conici al vapore ripieni di pesce, uova, patate, verza, tofu e zucca amara, serviti con una salsa a base di noccioline, soia, peperoncino e succo di lime.
I ravioli di Taiwan si chiamano ba wan e sono davvero soltanto locali, con il loro involucro a base di tapioca e amido di patata dolce. Sono nati, infatti, tramanda la tradizione, dopo la grande alluvione del 1898 a Changhua, quando lo scriba del tempio locale per sfamare gli sfollati si inventò una ricetta con quello che aveva a disposizione: patata dolce per la pasta, germogli di bambù per il ripieno. Oggi il popolarissimo ba wan moderno prevede carne di maiale, funghi shiitake e bambù.