Da sempre la politica estera è uno di quegli ambiti saldamente in mano agli stati nazionali, nonostante i passi avanti compiuti da Maastricht in poi. Eppure, il brusco risveglio nel mondo di oggi impone di considerare la politica estera come una priorità assoluta. Un apparente paradosso dimostra l’importanza della geopolitica e la sua centralità anche agli occhi dei cittadini. Nell’edizione speciale dell’Eurobarometro (la periodica rilevazione demoscopica effettuata dalle istituzioni europee), pubblicata a un anno dalle elezioni europee (giugno 2023), è stata posta questa domanda: «L’Unione Europea e in particolare il Parlamento Europeo hanno agito su diversi argomenti negli ultimi quattro anni Di quali dei seguenti argomenti, se ce ne sono, ha letto, visto o sentito parlare?». Al primo posto, con il settantaquattro per cento delle risposte, viene citato il supporto all’Ucraina. Al secondo e terzo posto troviamo la questione migratoria (trentotto per cento) e il Green Deal (trentasette per cento). Se da un lato non stupisce trovare l’Ucraina al primo posto, è sicuramente significativo notare i quasi quaranta (!) punti percentuali di distacco dal resto del podio.
Ripensando a quanto detto sull’integrazione europea, quasi esclusivamente economica, e agli innumerevoli sforzi compiuti negli anni per farcene percepire l’utilità, lo shock geopolitico dell’invasione russa è stato tale per cui i cittadini si sono accorti dell’esistenza dell’Europa in uno di quegli ambiti, la politica estera, dove istituzionalmente la dimensione europea è minima. Sta proprio qui l’apparente paradosso: apprezzare l’azione europea non per motivazioni economiche su cui l’integrazione si è concentrata, ma per ragioni squisitamente (geo)politiche come lo sono quelle che hanno portato gli europei a schierarsi dalla parte di un paese aggredito. Aggiungere l’aggettivo «apparente» è indispensabile, per sottolineare quanto argomentato sino a ora: l’importanza della (geo)politica e la dannosità di trascurarne le dinamiche.
I cittadini hanno riconosciuto e apprezzato l’Europa grazie all’unità, alla tempestività e alla determinazione della reazione degli stati membri. Già abbiamo visto, però, come il passare del tempo ha di fatto normalizzato il conflitto, indebolendo inevitabilmente l’attenzione delle opinioni pubbliche rispetto al tema. L’uscita dallo stato d’animo emergenziale che aveva contribuito a fare da collante nei primissimi mesi dopo l’invasione rischia di essere un fattore sempre più problematico e minare l’unità europea. Nell’ultimo vertice europeo del 2023, solo grazie a uno stratagemma – far uscire il premier ungherese al momento della decisione sull’apertura dei negoziati di adesione per l’Ucraina – e a un rinvio – sulla decisione relativa agli aiuti finanziari a Kyjiv – si è evitato un grave errore geopolitico, oltre che una figuraccia storica.
Per esprimere questi rischi, gli anglosassoni direbbero che unity is not a policy: l’unità, da sola, non si traduce in determinate politiche europee, può funzionare nell’immediato dell’emergenza, ma con il tempo viene meno se non è codificata. Lo dimostra – è importante ribadirlo – la risposta scoordinata e afona alla crisi in Medio Oriente esplosa dopo gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023. Per essere all’altezza di quel segnale forte espresso dalla percezione dei cittadini, è prioritario istituzionalizzare l’unità: bisogna rendere la politica estera e di sicurezza davvero comune, garantendo al livello europeo maggiore autonomia decisionale, così da aumentarne l’efficacia e la portata.
Tradotto, significa innanzitutto passare dal criterio dell’unanimità, come avviene oggi, a quello della maggioranza qualificata (il cinquantacinque per cento degli Stati membri che rappresentano almeno il sessantacinque per cento della popolazione dell’Unione). E anche non abusare del metodo informale delle decisioni prese per consenso, per cui anche se non ci sono votazioni formali, non si decide senza l’accordo di tutti gli Stati membri.
Questa soluzione naturalmente si scontra con la delicatezza di un ambito, la politica estera, di cui gli stati nazionali sono da sempre gelosi, anche per la presenza di priorità e interessi diversi. La politica estera, infatti, oltre a essere strettamente collegata alla sovranità nazionale e all’idea stessa della sopravvivenza dello stato è frutto di storie e geografie uniche per ciascun paese; un bagaglio non indifferente, che aumenta la complessità di tenere insieme interessi talvolta divergenti, se non addirittura in aperta competizione. Basti pensare al difficile rapporto tra Italia e Francia rispetto alla Libia o alla già citata diversità di atteggiamenti rispetto alla Russia prima dell’invasione, evidentemente influenzati dalla storia recente e dalla collocazione geografica.
Senza negare la complessità di una politica estera comune, si potrebbe agire in modo pragmatico, iniziando a sperimentare decisioni prese a maggioranza sulle crisi più acute come i conflitti armati e quelle che riguardano più da vicino la sicurezza dell’Unione europea. Si potrebbe, ad esempio, partire dal singolo ma complesso tema della risoluzione della guerra in Ucraina, sempre più urgente, che necessariamente coinvolge il nostro rapporto con la Russia, se vogliamo avere garanzie di una pace duratura. Avere a questo tavolo un’Europa che parli davvero a una sola voce (con tutti i processi di consultazione interna tra Unione e stati membri) sarebbe un grande atto di maturità per un’Unione che ambisce a essere un vero attore geopolitico.
Allo stesso tempo, la crisi in Medio Oriente cominciata nell’autunno 2023, tra le più violente del passato recente, ha messo ancora una volta in luce le difficoltà dell’Ue nel dare messaggi chiari e trovare una posizione unitaria in politica estera. Ciò è avvenuto anche a causa della grande confusione provocata dai messaggi contraddittori tra le istituzioni europee stesse, con l’alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell e altri esponenti di rilievo della politica europea che più o meno velatamente hanno criticato il ruolo giocato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Allora, anche in occasioni come questa – di crisi regionali così violente e con conseguenze potenzialmente catastrofiche – l’Ue potrebbe sperimentare meccanismi per parlare a una sola voce.