La ristorazione di livello deve saper stare al passo con i nuovi trend e offrire ai propri ospiti un’esperienza sempre più completa e inclusiva. Oramai è possibile assaporare un ottimo menu degustazione in cui ogni portata è accompagnata da un signature cocktail creato appositamente per sposare l’estro dello chef, oppure farsi consigliare dal sommelier un’opzione di pairing analcolico di grande qualità tra succhi, estratti e centrifugati.
Allo stesso modo, c’è grande attenzione verso qualsiasi tipo di allergia o regime alimentare particolare, il personale è sempre pronto a venire incontro alle necessità del commensale snocciolando molteplici opzioni vegane o gluten free con estrema cortesia e anche un pizzico di soddisfazione.
C’è solo un comparto in cui, ancora oggi, il livello si abbassa vertiginosamente, lasciando all’ospite l’amaro in bocca – letteralmente.
Il caffè è un tasto dolente per la ristorazione italiana, poiché, paradossalmente, è sempre stato considerato solo un corollario, un semplice completamento di un’offerta gastronomica pressoché perfetta.
Tutti noi, però, sappiamo che il caffè è molto spesso l’ultimo ricordo del pasto, l’ultimo sapore con cui le nostre papille vengono a contatto e che rischia di rovinare anche la migliore delle degustazioni.
Questa lacuna è dovuta al fatto che il caffè, nonostante sia presente in qualsiasi menu, spesso non viene considerato meritevole di cura, attenzione o di personale qualificato.
Negli ultimi anni le cose stanno cambiando, il consumatore stesso è sempre più attento e interessato a esplorare questa affascinante filiera, desideroso di conoscere il mondo che si cela dentro e dietro la tazzina.
Accanto a questo, i ristoratori si sono svegliati dal loro torpore e si sono domandati come migliorare la loro offerta garantendo l’alta qualità del prodotto, assicurandosi la soddisfazione del cliente e massimizzando l’efficienza al tempo stesso.
Una delle soluzioni che più spesso vengono adottate è l’utilizzo della macchina a capsule e come ci spiega Dario Sacco, direttore commerciale B2B di Nespresso: «Purtroppo nel mondo della ristorazione non ci sono così tanti posti che offrono caffè di qualità. Il ruolo del caffè nell’out of home sta cambiando: è sempre più grande, infatti, la consapevolezza di consumo da parte del cliente, consapevolezza che si lega a tematiche di qualità, caratteristiche organolettiche, terroir e filiera. Per questo l’offerta legata al mondo della ristorazione e dell’hôtellerie deve necessariamente modificarsi per rispondere ai gusti in continua evoluzione».
L’uso della macchina a capsule anche all’interno dei ristoranti può comportare diversi vantaggi per l’esercente e rispondere a esigenze della clientela che altrimenti sarebbero difficili da soddisfare.
Sicuramente si tratta di una scelta intelligente dal punto di vista dei costi, infatti una macchina a capsule utilizza un quantitativo di polvere di caffè, di acqua e di elettricità minime e ben dosate, evitando di generare sprechi, sia in termini energetici che di consumo di materia prima.
Un altro vantaggio è rappresentato dal fatto che è possibile garantire un’esperienza qualitativamente gratificante anche senza la presenza di personale specializzato, soprattutto in tutte quelle attività in cui il caffè non rappresenta il business principale.
«In Italia il caffè in grani è un dogma» commenta Sacco, «Ma i dogmi non sempre sono sostenuti dai fatti. Il caffè in grani è ottimo se ci sono consumi alti e costanti, uniti a personale formato. Nel caso manchino questi due elementi, la capsula aiuta moltissimo».
L’ultimo punto a favore, ma non per questo meno importante, è rappresentato dalla varietà dell’offerta, che consente ai commensali di poter scegliere tra moltissime miscele differenti, ognuna con le proprie caratteristiche e peculiarità. Sono sempre di più i patron e gli chef che si affidano a questo metodo, da Viviana Varese a Giancarlo Morelli, nell’omonimo ristorante di Milano. Proprio qui, al termine del percorso di degustazione, viene portata la Carta dei Caffè, tutti appartenenti alla linea Nespresso Origins, in linea con la filosofia di vita e di cucina di chef Morelli.
Il primo approccio con questo strumento è un po’ destabilizzante. Per ogni miscela, infatti, viene indicato il Paese d’origine, la percentuale di Arabica e Robusta e le principali caratteristiche organolettiche.
Dopo l’iniziale senso di estraniamento, abbiamo l’impressione che l’ultimo velo di Maya della ristorazione sia finalmente caduto: non solo è possibile, ma è doveroso, pensare anche il caffè in abbinamento alle pietanze assaporate.
I percorsi di degustazione devono necessariamente integrare il caffè, come già fatto con i distillati, offrendo la possibilità di scegliere tra varietà diverse pensate – perché no – proprio in abbinamento al menu proposto, e che quindi possono cambiare stagionalmente al pari delle portate.
Volendo estremizzare per portare un esempio efficace, al termine di una cena vegetariana o di pesce, caratterizzata da note fresche e delicate, si potrebbe abbinare una miscela di caffè altrettanto elegante, dai sentori fruttati, acidità spiccata e intensità media, come il Peru Organic, primo nato della gamma Origins.
Al contrario, per concludere un pasto in cui ritroviamo sapori più intensi e succulenti, potremmo optare per la miscela India, intensa e persistente, con note speziate di pepe e noce moscata che, al pari di importanti vini rossi, ben si sposano con sontuosi banchetti a base di carne.
«Perché bar e ristoranti dovrebbero avere solo una miscela di caffè? Sarebbe come pretendere che un’enoteca avesse una sola etichetta di vino», queste le parole di Andrej Godina, coffee expert e consulente di Nespresso.
E davanti a questa provocazione ci permettiamo di aggiungere che sì, forse è davvero arrivato il momento di osare.