Mini-cappuccino Al bar ordiniamo un marocchino per colpa di un cappello

Scopriamo le origini di una bevanda parente stretta del caffè e il cui nome è legato a un dettaglio dei celebri Borsalino

Foto di Matt Hoffman su Unsplash

Un marocchino, grazie. Il mini-cappuccino in bicchiere di vetro tiepido, arricchito dal cacao in polvere, è ormai diffuso in tutto Italia e soprattutto in Piemonte, dove nasce, quasi ogni bar ha una sua variante o un piccolo trucco, ad esempio aggiungere una cucchiaiata di Nutella in fondo al bicchiere, tradendo un po’, a fin di bene, la ricetta originaria.

Lo si ordina spensieratamente e senza ombra di razzismo, immaginando forse che la sua origine abbia a che fare con l’Africa, così come il cappuccino, si narra, debba il nome a padre Marco d’Aviano, un presbitero friulano inviato nel settembre 1683 da papa Innocenzo XI a Vienna, con l’obiettivo di convincere le potenze europee a una coalizione contro gli Ottomani, che la stavano assediando. Sarebbe stato lui, in una caffetteria viennese, a “correggere” per la prima volta il gusto troppo forte del caffè con del latte, e per questo la nuova bevanda sarebbe stata soprannominata kapuziner, ovvero «cappuccino» in tedesco.

Invece no, il marocchino ha un’origine tutta italiana, anzi doppiamente piemontese. La composizione, infatti, è forse ispirata allo storico bicerin torinese, amato da Cavour, raccomandato nelle sue lettere da Alexandre Dumas e rievocato da Umberto Eco ne “Il cimitero di Praga”, con cui condivide gli ingredienti di base, latte, cacao, caffè, e che a sua volta si ispirava alla più antica bavareisa settecentesca, servita in grossi bicchieri di vetro tondeggianti. Il suo concepimento, la nascita e il battesimo risalgono ai primi del ’900, ad Alessandria, nello storico e ormai scomparso Caffè Carpano.

Un locale collocato esattamente, e strategicamente, di fronte all’entrata principale della storica fabbrica Borsalino (che oggi ospita il museo del cappello) e quindi molto frequentato dagli impiegati e dagli operai che vi lavoravano. Fu uno di questi, il racconto del proprietario del bar è stato tramandato di generazione in generazione, a battezzare la bevanda, esclamando «U smea in maruchën», sembra un marocchino. E no, non parlava degli allora sconosciuti immigrati nordafricani, ma del colore della striscia di cuoio inserita nei feltri Borsalino come guarnizione finale. “Marocchineria” allora era un nome comune per il cuoio conciato di cui il Marocco era, ed è, grande produttore e “un maruchën” divenne un’ordinazione popolare nel locale, prima di italianizzarsi e diffondersi insieme alla creazione in tutto il Paese.

Il marocchino, o qualcosa che gli assomiglia, potrebbe essere anche noto al Sud come “vetrino”, o “espressino”, e non è da confondere con il moccaccino, che aggiunge cioccolata calda e, volendo, panna montata, per un’overdose di calorie.

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