Ha vinto tanto, più di ogni altra sciatrice azzurra: medaglia d’oro e un argento in tre differenti Olimpiadi invernali, tre ori mondiali, una Coppa del Mondo di specialità, quarantaquattro podi in Coppa del Mondo (di cui 16 vittorie). Il tutto intervallato da molteplici e gravi infortuni. E poi, un po’ come accade con le dive, è sparita. Per un po’. La differenza rispetto alle dive è che Deborah Compagnoni non si è eclissata per rimuginare sui successi del passato o attutire l’uscita dal mondo che l’ha osannata. E non lo ha fatto nemmeno perché si è arresa di fronte ai problemi di salute che l’hanno accompagnata per lunghi tratti di strada. Da solida valtellinese, sapeva e sa che c’è una stagione per ogni scelta e a un certo punto era giunta l’ora di “un’altra carriera”, quella dentro una famiglia. Prima compagna e poi moglie di Alessandro Benetton per 21 anni, ha cresciuto Agnese, Tobias e Luce, restando sempre impegnata nel sociale con l’Associazione Sciare per la Vita.
«Si è come scongelata ed è ricominciato tutto come prima», scherza Giulia Mancini, manager e amica della Compagnoni e di molti altri sportivi. Mancini è un portento, sta dietro le quinte e ha la calamita per progetti innovativi e grandi occasioni. Forse perfino la Ferragni se la sarebbe cavata se avesse scelto quello stile di comunicazione. Deborah è tornata e lei l’ha accolta con un’agenda piena di collaborazioni e appuntamenti. E così nel 2021 l’atleta ha accettato l’invito a mettere a disposizione la sua esperienza di campionessa come Ambassador delle Olimpiadi e Paralimpiadi Milano Cortina 2026. Ha inoltre intrapreso la collaborazione con OVS, perché da appassionata di moda sportiva ha riconosciuto al progetto di Stefano Beraldo la solidità della preparazione tecnica necessaria a realizzare collezioni per lo sci e l’outdoor, come Altavia, a prezzi accessibili ma con un contenuto tecnico impeccabile. Con una qualità di materiali molto alta e un pensiero etico nei confronti di un pubblico che per lo sport all’aria aperta non può svenarsi.
Ma prima Deborah Compagnoni ha ricaricato le pile nella sua Santa Caterina Valfurva, nido e rifugio. Lo voleva, ne aveva bisogno. C’era un’Heidi a Francoforte dentro di lei, anche se non lo vorrebbe dire, perché è valtellinese, e i valtellinesi non brontolano per questioni genetiche.
«Scongelare una sciatrice è un’ottima metafora» esordisce Deborah. «Siamo gente che passa dal caldo al freddo di continuo».
Qual è il bilancio della tua vita fino a qui?
La fase atletica è stata un concentrato di vita, un po’ monotematica, un po’ limitata nella scoperta del mondo, anche perché quando gareggiavo io non c’erano i social network ed era davvero difficile uscire dalle conversazioni su performance-preparazione-infortuni-preparazione-performance. Potevi essere nei posti più belli del mondo ma quello era il mood. Poi c’è stata una sorta di seconda vita, con una diversa responsabilità, più morbida, familiare e ora una terza, nuove energie, sfide e anni di esperienza.
Ci saranno state fasi in cui l’atleta staccava e tornava a essere umano, no?
Raramente, perché il pensiero va sempre alla preparazione perfetta, al rischio di perdere qualcosa se salti un giorno di allenamento. Per me è sempre stato così. Credo che anche per Federica (Brignone, ndr) oggi sia un po’ così visti i risultati nelle tante gare che fa durante la stagione.
Dunque la fine della carriera può essere una liberazione…
Non proprio. Cerchi piuttosto di reagire allo spiazzamento dovuto all’entrata in un’altra dimensione, dove quell’impegno spasmodico sulla performance non serve più. Svanito, pufff.
Il tuo antidoto?
Ho messo tutta la disciplina nel crescere i miei figli. Era ciò che avevo, non avevo altri metodi. Ma è così che ho capito che in realtà è proprio quella della famiglia l’esperienza più importante della vita.
Poi sono cresciuti, e si direbbe molto bene…
Sì certo, studiano in America, e in qualche modo la separazione da Alessandro, seppur dolorosa mi ha permesso di chiudere un ciclo e di riportare le energie in progetti nuovi, tornare a essere consapevole che nulla è mai certo.
Confessa, non vedevi l’ora di tornare a Santa Caterina, lontana dall’idea di performance in senso sportivo e sociale.
Sono andata a vivere in città per un po’ e non nego che questo sia stato un sacrificio, mi sono mancati i miei luoghi del cuore. Mi mancava la montagna, mi mancava quello stare bene anche da sola.
Non ti spaventa la solitudine?
Io non ho paura di niente e in montagna in modo particolare. Quando l’ho capito ho cominciato a chiedermi perché non riuscissi a gestire la mancanza del mio mondo naturale, in cui sono cresciuta, avendo gestito situazioni ben più difficili come gli infortuni. Però di una cosa sono certa, attraverso la mia seconda vita familiare, ho potuto arricchirmi di esperienze e rapporti che hanno generato altre energie.
A un certo punto Deborah Compagnoni pronuncia una parola bellissima e polverosissima: ginnastica. «Sono passata dalla mia routine di ginnastica quotidiana ad altri ambienti e altri discorsi». Eh no, bisogna fermarsi, capire. Dentro quella parola c’è il senso di quanto sia cambiato lo sport e forse di quanto siamo cambiati noi tutti. «Sì diceva così, allora, ginnastica, e la parola ci entrava in testa fin da piccoli, quando appunto ci mandavano “a ginnastica” e poi andavi a scuola e avevi l’ora di ginnastica e così tutta la vita poi la passi a fare ginnastica. Corsa, allenamento, un look stretto tra la tuta da ginnastica e l’armatura da sci. Tutti i giorni. Nella fase cittadina non sapevo cosa mettermi, come se non fosse un mio diritto cambiare abiti. E questo un po’ mi destabilizzava. Oggi invece posso dire che in tenuta da ginnastica io mi sento benissimo, perché è vestita così che ho vissuto le più grandi emozioni».
In questa nuova fase senti di dover ri-allenare anche le emozioni?
Sicuramente in montagna le ritrovo. La differenza è che adesso le riconosco, mentre da piccola mi arrivavano respirando. Sono sensazioni, momenti magici che restano lì. Credi di poterne fare a meno per un po’ poi però vuoi che ritornino.
Come si fa?
Sono gli elementi naturali a scatenarle. C’è un filo che unisce i sensi e i ricordi. L’odore della neve, lo stesso che sentivo da bambina e poi mentre mi allenavo, d’inverno. Lo sento di nuovo, mi sono ritrovata in sensazioni primordiali.
Forse hai soltanto imparato a rilassarti.
Credo ci sia molto di più se questi elementi tornavano anche durante gli allenamenti in solitaria, nella neve, tra i pini. Se penso all’adrenalina della competizione e del successo e poi alle emozioni che oggi provo nel posto in cui sono cresciuta, è bello sapere che mi bastano queste ultime per farmi stare bene, per essere me stessa.
Giochiamo a Proust, facciamo l’elenco delle tue madeleine?
L’odore dell’aria dei primi di dicembre, le giornate terse, il rumore dei passi sulla prima neve dell’inverno, animali sfuggenti, avventure nel bosco con i miei cugini, sentirsi dall’altra parte del mondo a 50 metri da casa. Poi la cucina di casa, la nonna, la polenta e il suo vapore. E il pensiero di non volerla più mangiare e di vergognarsene un po’ mentre sei in giro per il mondo a gareggiare, come se crescere fosse ribellarsi ai piatti di polenta. Per poi oggi sentirne il profumo e trovarlo buonissimo.
Sei cresciuta in un albergo molto diverso dagli hotel che ti hanno ospitato nei campionati.
Di certo la struttura familiare di questo albergo ti porta a vedere come casa un luogo che ospita altre persone. Ma il bello è che in questo tipo di alberghi fai di tutto per farle sentire a casa, le persone. E così era, con i nostri ospiti eravamo sempre amici. E poi sono luoghi dove davvero si fa di tutto per condividere l’autenticità e la tradizione del posto, del lavoro, del cibo.
Quali aggettivi ti definiscono meglio oggi?
“Nostalgica”, direi, che non vuol dire triste, ma desiderosa di prolungare il bello del mio vissuto, poi “reattiva” perché cado e mi rialzo con più energia e non sopporto i pessimisti e infine “semplice”, perché è l’essenzialità a regalarti le emozioni migliori.
È per questo che hai scelto di non essere sui social?
La mia vita è già piena di emozioni e se dovessi dedicare tempo ai social immagino che toglierei tempo alle cose belle che provo e che vivo. Anche se rispetto chi ce li ha, li coltiva e ci lavora.
Oggi alle persone note è richiesto impegno a favore dei più deboli la sostenibilità, quanto senti tuo questo tema?
Ho da tempo la mia associazione Sciare per la vita ODV Onlus. Con l’impegno dei volontari raccogliamo fondi per supportare la ricerca delle malattie pediatriche oncologiche. Lì sono impegnati amici fidatissimi e parenti, so che mi posso fidare. Poi sono Ambassador Unicef.
Ma quanto sei veramente impegnata nella sostenibilità?
La montagna ti educa a non sprecare e questa è un’attenzione che ho da sempre. Però penso anche che ci siano temi davvero complessi non facili da affrontare per tutti. L’importante è che ognuno di noi cerchi di attuare un comportamento quotidiano improntato al rispetto.
Da Ambasciatrice della Fondazione Milano-Cortina per la sostenibilità del territorio. Come ci stiamo comportando con la montagna?
Il territorio italiano è fortemente antropizzato, ovvero occupato dall’uomo e dalle sue attività. Nel mio territorio, le Alpi, e non solo, l’economia ha puntato molto sugli sport invernali, a volte esagerando nello sfruttamento della montagna. Ci sono aree sciistiche sovraffollate e altre dove tutti si lamentano che non hanno gente. Non dico sia necessario tornare indietro ma almeno uscire dalla logica della montagna come parco giochi, anche perché così si inficia la possibilità di far vivere l’autenticità del territorio stesso.
Poi è tornata la fauna selvatica. Abbiamo a che fare di nuovo con orsi, lupi, cinghiali…
Se il territorio è compromesso a farne le spese sono uomini e animali, ma gli errori li fanno gli uomini, non gli animali. Loro si muovono seguendo l’istinto, ma i loro movimenti sono interrotti da una fitta rete di strade. Li abbiamo relegati in aree che poi non gestiamo. Tutti questi animali, predatori compresi non possono essere definiti pericolosi, perché siamo noi ad aver invaso il territorio. I disastri li ha fatti l’uomo. Anche la segnaletica parla ai turisti come si fa in un parco giochi, e tutto sembra semplice anche per chi non ha cultura di sentieri e rispetto per il luogo.
Da un lato la mancanza di rispetto, dall’altra giovani generazioni ribelli e rigidissime sull’ambiente. È possibile una mediazione?
Quando ero giovane trovavo lontanissimi da me i cinquantenni. L’età della ribellione generazionale l’abbiamo avuta tutti, però poi l’esperienza ci ha fatto capire che è un bene ascoltare di più chi ha più anni. Bisogna anche dire che i più giovani hanno anche stabilito un rapporto fortissimo con i nonni, il che è davvero commovente. Ci piaccia o meno, noi cinquantenni di oggi, non siamo ancora nelle condizioni di dare buoni consigli ai più giovani.