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«In Italia la professione del meteorologo ufficialmente non esiste». Suona strano in un momento in cui la crisi climatica è una delle principali emergenze globali. E suona ancora più strano, se a dirlo è Pierluigi Randi, presidente della Ampro, Associazione meteo professionisti. L’Italia è rimasta uno dei due Paesi in Europa, insieme alla Grecia, a non avere ancora un albo ufficiale per i meteorologi, nonostante la World Meteorological Organization ce lo chieda da tempo. Poi, nella realtà, i meteorologi per fortuna esistono e sono sempre più richiesti. E negli ultimi anni questa professione sta riscuotendo molto interesse da parte dei giovani», spiega Randi.
Dai tempi del colonnello Edmondo Bernacca, primo volto dell’Aeronautica militare a divulgare le previsioni meteo in Rai, sono passati più di sessant’anni. Nel frattempo il clima è impazzito, tra picchi di temperatura, grandinate violente, alluvioni e siccità. E oggi più che in passato è diventato vitale, in tutti i settori, avere previsioni meteo affidabili, veloci e precise.
Fino al 2022, il vuoto normativo sulla professione in Italia è andato di pari passo anche con l’anomalia dell’assenza di una agenzia civile e non militare per il monitoraggio del meteo. L’Agenzia Italia Meteo, prevista dal 2017 ma istituita con sei anni di ritardo, sta muovendo i primi passi solo dal 2023, ma deve ancora entrare del tutto in funzione, provando a far interagire la mole crescente di dati scientifici provenienti da stazioni di osservazione e satelliti.
In passato, l’Aeronautica militare era «la» voce del meteo. Oggi, con tv, siti Internet e app, è sempre più difficile distinguere chi ha i titoli e chi no per dirci che tempo farà domani. «Chiunque può aprire un portale e pubblicare le previsioni meteo utilizzando i modelli numerici», dice Randi. E il rischio è quella che chiama «meteorologia urlata», con «annunci continui di catastrofi per avere più clic». Anche perché il primo corso di laurea in Meteorologia ha debuttato solo nel 2019, presso le Università di Trento, Bolzano e Innsbruck. E non tutti coloro che oggi si occupano di meteo ricorrono alla certificazione delle competenze affidate alla Dekra, ente provato che al momento sostituisce di fatto il riconoscimento ufficiale della professione.
Nella vecchia scuola dei meteorologi italiani, molti erano fisici dell’atmosfera. Poi sono arrivati i corsi in scienze ambientali e climatologia. E oggi i settori di provenienza sono tanto diversificati quanto lo sono i campi di applicazione. Dagli esperti di dati radar a coloro che lavorano in agricoltura fino ai meteorologi dello sport. Ogni team di Formula Uno al suo interno ha una squadra di previsori per valutare le condizioni delle piste. Così come le società energetiche.
Secondo le stime dell’Ampro, i meteorologi civili in Italia sono più o meno settecento, e altri settecento circa sono i militari dell’Aeronautica impegnati nel servizio meteo. «Per entrare nel servizio meteo dell’Aeronautica, esistono bandi per i laureati in fisica e matematica, i quali seguono poi un corso di formazione di dieci mesi in fisica atmosferica e meteorologica», spiega il tenente colonnello Attilio Di Diodato, capo sezione addestramento e approntamento personale meteo dell’Aeronautica. «Per la figura professionale di tecnico meteo, invece, i bandi sono aperti anche ai non laureati, che devono poi seguire un percorso di formazione specifica».
L’Aeronautica gestisce anche due centri che fanno «osservazioni speciali» sui cambiamenti climatici, misurando CO₂, ozono e radiazioni solari: uno a Vigna di Valle, sul lago di Bracciano, e uno sul monte Cimone, sull’Appennino modenese, dove esiste la serie storica di anidride carbonica più lunga d’Europa.
Ma anche negli uffici che furono del colonnello Bernacca, si fa sentire il peso del mancato turnover. «I bandi di concorso più sporadici e con numeri ridotti rispetto al passato non riescono a compensare i pensionamenti. E l’età media è di circa cinquant’anni», spiega Di Diodato. «Nei prossimi anni puntiamo a garantire comunque il servizio con poco più di cinquecento persone grazie all’automatizzazione delle rete informativa, a eccezione degli aeroporti, dove c’è bisogno della capacità visiva umana». Grazie alla maggiore potenza di calcolo dei computer a disposizione, oggi si riescono a processare enormi quantità di dati in poco tempo. Anche perché, con gli eventi climatici estremi sempre più comuni, precisione e celerità diventano fattori chiave per le allerte.
«In passato la previsione del tempo serviva per organizzare al meglio le giornate o le gite fuori porta. Oggi diventa centrale la comunicazione del rischio prima, durante e dopo un fenomeno meteo intenso o estremo», spiega Serena Giacomin, meteorologa, climatologa e presidente di Italian Climate Network. E così come cambia il clima, cambia anche il lavoro del meteorologo. «Ci troviamo a fare i conti con un clima in cui magari piove meno, ma più intensamente. E quella pioggia intensa cade in un territorio molto circoscritto», spiega Giacomin. «Riusciamo a fare delle previsioni con un buon indice di affidabilità quando abbiamo una perturbazione ben strutturata. Ma diverso è il caso di una giornata estiva in cui c’è il rischio di temporali di calore: non sappiamo con esattezza dove il temporale andrà a colpire e non abbiamo la possibilità di saperlo finché il temporale non si forma e il radar dice in tempo reale che cosa sta accadendo, in modo che, in brevissimo tempo, venga allertata la popolazione».
I fenomeni estremi molto spesso sono brevi e interessano aree ristrette. «La tremenda alluvione delle Marche del settembre 2022, ad esempio, ha interessato soltanto un bacino, mentre a pochi chilometri di distanza non è successo quasi nulla», dice Pierluigi Randi. «In questo senso, si cerca di dedicare la maggiore potenza di calcolo a modelli numerici che riguardano dei domini ristretti, cioè si cerca di migliorare la previsione su aree non troppo estese, calcolando i parametri meteorologici anche ogni 30 minuti o un’ora, mentre in passato si faceva ogni sei ore».
Più che puntare sulla maggiore affidabilità delle previsioni settimanali, quindi, la ricerca sta scommettendo su un mirino più preciso, con calcoli in grado di fare previsioni a più breve termine e in aree dettagliate, in modo da individuare i luoghi precisi che possono essere colpiti da violente precipitazioni o forti venti. Come il downburst che ha colpito Milano nel luglio del 2023.
In alcuni comuni del Veneto, non a caso, si sta sperimentando la figura del meteorologo comunale, ovvero scienziati che conoscono il microclima delle zone e fanno da supporto alle amministrazioni, sulla falsa riga di quanto già accade negli Stati Uniti. «Il nostro principale compito è far leva sulla consapevolezza del rischio e sull’autoprotezione civile, in modo da sapere come comportarsi durante un fenomeno estremo», dice Giacomin. «Non lo facciamo per catastrofismo. Abbiamo i dati, li seguiamo giorno per giorno e sono estremamente preoccupanti».
Il problema è questi professionisti, giorno dopo giorno, sono ancora costretti a fare i conti con negazionisti e dichiarazioni politiche approssimative. «La comunicazione su questi temi è fortemente polarizzata. Nei dibattiti televisivi c’è sempre chi è pro e chi è contro. Ma non dovrebbe essere così: se siamo arrivati a un consenso ormai intorno al 99 per cento sugli studi scientifici che attestano non solo il riscaldamento globale, ma anche l’origine antropica, allora un dibattito equilibrato dovrebbe vedere novantanove scienziati climatologi contro un negazionista, non un climatologo contro un negazionista».