«Nyumba bado iko?», in swahili – lingua parlata in Kenya e in altri Paesi dall’Africa orientale – è un modo per chiedere se la propria casa esiste ancora. Tra i vicoli delle baraccopoli di Nairobi, molte persone fanno da giorni la stessa domanda. In Kenya è la stagione delle lunghe piogge, da marzo a giugno. A inizio maggio, però, in soli due giorni i millimetri di acqua sono stati quelli che in media cadono nel Paese nel corso dell’intero mese. Le immagini satellitari mostrano il fiume Tana, il più lungo dello Stato, esondato oltre gli argini: intorno una palude di fango.
Nell’area di Mai Mahiu, nel Kenya occidentale, è crollata una diga. L’acqua ha travolto i centri abitati e ha ucciso almeno quarantacinque persone. Secondo gli ultimi dati del governo, i civili ancora dispersi sono settantadue, gli sfollati oltre duecentomila, i morti duecentotrentotto.
«Chissà di quante altre persone non sapremo mai che fine hanno fatto», racconta a Linkiesta Antonio Melotto, medico e socio-fondatore di World friends, ong con sede a Nairobi che cerca di garantire cure a chi non può permettersele. Melotto parla dalla guest-house del Neema, ospedale che si trova non lontano da Korogocho, uno degli slum più grandi di Nairobi. «Nelle baraccopoli l’acqua e il fango hanno invaso le strade, è impossibile spostarsi, anche solo per brevi tratti. In queste condizioni uscire per procurarsi cibo è difficile, figurarsi per venire in ospedale».
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sta monitorando le condizioni sanitarie, si teme che possano verificarsi epidemie di tifo e di colera. Il ministero della Salute del Kenya ha annunciato che a causa delle inondazioni, quattordici strutture sanitarie sono state chiuse e un importante impianto di trattamento idrico è stato danneggiato: tremila persone sono rimaste senza acqua potabile. Nella regione di Tana River sono stati segnalati quarantaquattro casi di colera.
A spiegare perché si diffondono queste malattie è il dottor Melotto. «In molte parti del Kenya non esistono impianti di fognatura. Con le inondazioni è facile che l’acqua si mescoli ai liquami e trasmetta i batteri che provocano malattie come il tifo e il colera». Inoltre, continua Melotto, «Nairobi si estende sui colli – un po’ come Roma – e gli slum sono situati nelle valli tra una collina e l’altra. In queste depressioni l’acqua si accumula molto di più che nelle zone residenziali ricche. Per questo i più colpiti dalle epidemie sono i più poveri tra i poveri».
Il governo ha ordinato l’evacuazione a chi vive nei pressi di fiumi, dighe e corsi d’acqua. In altre parole agli abitanti delle baraccopoli. A Nairobi i bulldozer hanno cominciato a smantellare le case di lamiera. La polizia è intervenuta lanciando gas lacrimogeni verso alcuni residenti che non volevano abbandonare le proprie abitazioni. «Molti di loro non sanno dove andare. Piove sul bagnato», continua Melotto.
L’organizzazione non profit americana Human rights watch ha definito inadeguate le misure del governo, accusando lo Stato del Kenya di non avere agito in maniera preventiva nonostante gli avvertimenti del Dipartimento meteorologico kenyano. La risposta del presidente William Ruto è arrivata dopo la visita allo slum di Mathare, a Nairobi. Si tratta di una promessa di settantacinque dollari per chi ha perso la casa e l’avvio di un programma di mitigazione del cambiamento climatico che prevede la piantumazione di nuovi alberi. La riforestazione comincia oggi, venerdì 10 maggio, giorno dedicato alle vittime delle alluvioni.
È ancora da dimostrare il legame diretto tra il cambiamento climatico e le piogge devastanti di queste settimane. Il World weather attribution (Wwa) si riunisce ogni volta che accade un fenomeno meteorologico di rilevanza pubblica per studiare se esiste un nesso di causa-effetto tra un evento estremo e la crisi climatica. Per l’analisi sulle alluvioni che hanno colpito il Kenya bisognerà ancora attendere, ma a dicembre 2023, il Wwa ha pubblicato uno studio relativo all’intensità delle precipitazioni della precedente stagione delle piogge, quella di ottobre 2023.
Nella parte orientale del continente africano, infatti, oltre al periodo delle lunghe piogge (marzo-giugno), tra ottobre e dicembre si verifica anche la stagione delle “piccole piogge”. Dunque, il Wwa ha dimostrato che le precipitazioni della fine del 2023 hanno avuto un’intensità doppia rispetto a quella che si sarebbe verificata senza i seguenti fattori: la crisi climatica (cioè «l’aumento di 1,2°C delle temperature medie globali provocate dall’uso dei combustibili fossili») e una fase positiva del fenomeno naturale noto come Iod (Indian ocean dipole, dipolo dell’oceano Indiano), ossia una circolazione delle acque dell’oceano Indiano che porta quelle più calde verso le coste orientali dell’Africa.
Nella stessa analisi si legge anche: «L’aumento della gravità e della frequenza di eventi meteorologici estremi nel Corno d’Africa potrebbero sovraccaricare la capacità di risposta dei governi e delle organizzazioni umanitarie». E proprio durante le alluvioni, il 29 aprile a Nairobi, i capi di governo africani, riuniti in un vertice a Nairobi, hanno chiesto all’Agenzia internazionale per lo sviluppo della Banca mondiale (International development association, Ida) almeno centoventi miliardi per proteggere le proprie economie dal cambiamento climatico.
Secondo l’Ipcc, l’istituzione delle Nazioni unite sulla scienza del clima, a causa del riscaldamento globale il volume complessivo delle piogge in Africa orientale tende a diminuire, ma l’intensità e la frequenza degli eventi di pioggia estremi aumenta perché un’atmosfera più calda trattiene più umidità e accumula più energia. A sottolineare, però, l’altra faccia della medaglia degli eventi meteorologici estremi è Edna Odhiambo, avvocata che si occupa di questioni ambientali. «Possiamo attribuire l’intensità delle piogge al cambiamento climatico, ma dobbiamo separare la causa dai suoi effetti: la devastazione causata dalle inondazioni è anche un problema di pianificazione».
Il piano urbanistico di Nairobi: oltre la metà della popolazione, circa tre milioni di persone, vive in uno spazio pari a solo il cinque per cento della superficie della città. Gli insediamenti informali sono almeno cento. Le condizioni di vita in questi luoghi rendono gli abitanti molto più vulnerabili. In attesa della risposta del governo e degli aiuti economici dai Paesi storicamente responsabili della crisi climatica, diverse organizzazioni si stanno dando da fare.
World friends ha attivato una pagina per le donazioni. Sabato 11 maggio è previsto un medical camp nella baraccopoli di Mathare. «Andiamo con un furgoncino attrezzato per visitare donne in gravidanze e persone in difficoltà. Speriamo che non si verifichino altre inondazioni altrimenti saremo costretti a rimandare», racconta il dottor Melotto. «In questi giorni stiamo comunque cercando di portare acqua pulita e cibo raggiungendo un punto più o meno accessibile nei pressi degli slum».