Cosa chiedere di nuovo a uno degli chef più conosciuti del panorama gastronomico (e televisivo, anche se con la dovuta precisazione che in televisione si fa intrattenimento, e non cucina)? Anna Prandoni si era posta un quesito simile quando ha incontrato Alain Ducasse, e ora che il Festival di Gastronomika ha portato sul palco assieme a lei chef Carlo Cracco il punto di partenza è lo stesso.
Il tentativo di chiedere proposte in anticipo a mezzo social ha avuto poche risposte, forse perché questo chef dall’atteggiamento tra l’ironico e lo scanzonato riesce sempre a mettere in soggezione le persone?
Niente affatto, ciò che emerge da questo incontro è sì una persona che non risparmia ironia e un certo distacco da quello che nel “mondo” si percepisce di lui, ma anche un professionista con alle spalle esperienze e preparazione fuori dal comune e soprattutto una grande apertura e calore verso i giovani che dimostrano amore per questo mestiere.
Ma partiamo da lui, dal Cracco giovane, quello che «Quando sono partito la cucina non era granché». Un mondo diviso in due, tra ristoranti famosi e in voga, dove si faceva alta cucina ma “tradizionale”, e ristoranti di hotel dai nomi importanti. E lui parte dai primi, semplicemente «perché i miei non mi lasciavano andare via. Quindi vado in questo ristorante “famigliare”, anche se lì c’era già un’idea di cuoco più evoluto, ma con solo due persone: una in sala una in cucina. Al cinquanta per cento al momento del servizio era tutto già cotto, c’era il carrello dei bolliti e gli arrosti fatti al mattino. Di espresso si preparavano solo i primi o un po’ di griglia, ma non sempre. Un’idea di cucina molto semplice».
Un ristorante dove la carne riveste un ruolo primario, e questo gli permette di imparare a trattarla e disossarla. Una competenza al tempo poco diffusa ma che lo aiuta a entrare poi in una cucina molto importante.
In quel momento infatti nel mondo della ristorazione italiana succede qualcosa: arriva Gualtiero Marchesi, e con lui si afferma un’idea completamente diversa di ristorazione. «Con Marchesi cambia tutto, anzi, riparte tutto. Dalle tre P (panna, piselli, prosciutto) dei piatti ricchi e ruffiani degli anni Ottanta, la cucina cambia in maniera totale. Marchesi riparte, con quella francese, poi l’abbandona, e poi riparte ancora da zero, con la cucina regionale e la sua reinterpretazione. Lì per la prima volta io ho sentito parlare di cucina italiana.
Italiani eravamo pochi: c’erano lo chef tedesco, poi francese, poi alcuni inglesi e giapponesi, ma si faceva cucina italiana. La cucina è sempre stata in movimento, non si ferma perché lo diciamo noi, la cucina va sempre avanti. Ti confrontavi con ragazzi che venivano da lontano, si creavano amicizie e rapporti duraturi. Una volta la cucina era come fare spogliatoio, un luogo dove si sta tutti insieme, ma con regole che in maniera molto simile valgono ancora oggi: non urlare, avere rispetto, aiutare chi è in difficoltà».
Nasce spontaneo chiedere: ma quel desiderio di dedicarsi anima e corpo alla cucina oggi non c’è più? «Certo, c’è ancora! Io vedo ragazzi che hanno la stessa grinta che avevo io. Ma dire se ci sono o meno ragazzi che vogliono fare questo lavoro non è un’affermazione che possiamo fare noi, dipende dai ragazzi stessi. Se hanno voglia di fare, sono uguali a come eravamo noi, che non eravamo più capaci o meno capaci, eravamo uguali».
Certo, parlando di giovani si passa anche per una bonaria critica sull’utilizzo dei social e sulla mania dei selfie (con tanto di confessione sul forse unico selfie che lui stesso ha chiesto, a una certa Patti Smith), mentre meno bonaria e più seria è la critica rivolta al settore. «Non c’è una politica adeguata, non c’è una legge, nulla viene fatto per i ragazzi che lavorano oggi, mentre tanto si potrebbe fare. Ad esempio non equiparare un ristorante che investe sulla formazione e avvia seriamente i ragazzi a una professione a una catena dove non si fa molto più che farcire un panino; invece sono equiparati, si applicano le stesse leggi, gli stessi obblighi. Si è evoluto tutto il resto, mentre questa parte qui non si è mai evoluta».
Torniamo alla cucina, a quello che a tutti gli effetti è «un lavoro incredibile e difficilissimo, se lo fai è perché ti piace e ci credi, e allora non è più un lavoro ma qualcosa che fai perché lo ami, e vai sempre avanti, e soprattutto cresci». Cosa dire ai ragazzi, e dei ragazzi, che nonostante tutto vogliono farne la propria professione?
«Io oggi mi diverto ancora con i ragazzi in cucina, le dinamiche sono un po’ diverse rispetto ai miei tempi per certi aspetti. Oggi ad esempio c’è Internet per sapere di più su ingredienti strani, una volta dovevi trovare qualcuno che ti raccontasse cos’era e come si usava il foie gras… Ma oltre a questo quello che è importante, ed è un insegnamento di Marchesi, è avere le proprie idee, un proprio approccio alla cucina e cercare di portarlo avanti».
E ai giovani è stata dedicata anche la parte finale di questo incontro. Un momento di confronto diretto, prima con Flavio Lucarini e Aurora Storari, i due giovani partiti con successo alla conquista della capitale francese che hanno trovato un punto d’incontro con lo chef proprio nel terreno dell’esperienza francese.
Condividono l’aver vissuto i momenti di “solitudine” che accompagnano questa carriera («Fa parte della crescita, può essere triste, ma può essere anche un momento di rafforzamento, che ti dà ancora più carica per fare quello che hai in testa, quindi è fondamentale per crescere professionalmente») sia un certo timore che si prova nel momento in cui si porta nel proprio Paese qualcosa che fuori è già realtà ma che qui rischia di non essere ancora capito.
Come vivere il rischio che tutto ciò si trasformi in un qualcosa di non compreso? «Anche il tonfo iniziale aiuta a formare, anzi, se non ci fosse diresti “tutto qua?”. Io oggi faccio quello che voglio più liberamente, sono diventato molto zen: non mi chiedo se il cliente ha capito, lo capisci dalla reazione se ha capito o no, che è immediata. Non dimentico ciò che diceva Marchesi: devi soddisfare la testa, non la pancia, la cucina è un momento in cui viene trasmesso qualcosa, e se il cliente lo coglie è un successo, se non lo coglie pazienza, passerà un altro».
E infine un consiglio (pur sotto premessa che non ama dare consigli!) ai giovani studenti di Alma presenti: «Oggi il fattore geografico non conta più, e si può trovare un ottimo ristorante in qualsiasi punto del mondo, quindi visto che abbiamo a disposizione tutto il mondo, approfittiamone! Andate fuori a vedere, a conoscere, a imparare. La formazione che si fa all’inizio della propria carriera è importante, che sia più varia possibile e anche su campi diversi, poi tutto dipende da quello che si vuole: se lo vuoi fare, lo vai a fare, e lo farai anche bene».