Ieri ho mangiato le mie prime ciliegie del 2024, e da questo gesto potrebbero discendere taluni elzeviri su taluni temi, tutti a me cari e tutti che non ci dormirei la notte se non prendessi apposite pastiglie.
Prima ipotesi di chiave narrativa: ieri era il 24 di maggio, quando esistevano le mezze stagioni era già un bel pezzo che mangiavamo ciliegie, è dunque questo il cambiamento climatico? E, se è questo, perché nessun militante ambientalista capisce che è il tema vincente?
Se quelli di Ultima Sediovuole Generazione, invece di dirci che moriremo tutti, ci dicessero «saremo inutilmente vivi ma, giacché non esisterà più la stagionalità, tutti i novembre e dicembre della nostra vita trascorreranno senza tartufi o – peggio! – con tartufi cari e insapori giacché non ha piovuto nelle settimane giuste», se sapessero prendermi per il cuore in questo modo, io li accompagnerei a lanciare risotti (non al tartufo) sulla “Primavera” del Botticelli.
Seconda ipotesi, più filosofica: i prodotti che ci sono per poco tempo ci sembrano più buoni proprio perché ci sono per poco tempo, così come al liceo quello che non ci voleva ci pareva più figo per il suo non volerci? Se le mele si trovassero solo un mese all’anno, le troveremmo i frutti più deliziosi? O è proprio sfiga, e tartufi e ciliegie ci sono per poco altrimenti io ne farei indigestione tutto l’anno?
Ma la vita è una continua delusione, e la lettura che darò della mia merenda di ieri sarà invece quella che – come sempre – passa per i soldi, e che possiamo riassumere in: che cos’hanno in comune i ventenni di Twitter, Matteo Renzi, e la barista sotto casa mia?
La settimana scorsa i ventenni di Twitter hanno scoperto che le ciliegie sono costose. Qualcuno ha fotografato il cartello d’un supermercato che dava le ciliegie a venticinque euro e novanta al chilo, e questo secolo ha messo in scena la sua versione della presa della Bastiglia, che è: lagnarsi dei prezzi digitando su telefoni da mille euro.
Immagino quelle fotografate fossero primizie, perché quel giorno nei posti dove faccio la spesa io le ciliegie ancora non c’erano. L’altroieri, quando le ho prese, costavano dodici euro al chilo, che già è meno della metà, ma ce n’erano anche da dieci. Su Cortilia erano scontate a poco più di nove euro, ma io Cortilia non lo uso più da quando mi mandarono una scatola in cui ogni prodotto era puntellato di schegge di bottiglie destinate chissà a chi e rotte nel trasporto, e dovetti fare tre telefonate per convincerli a portarsi via quella scatola evidentemente proveniente da Beirut, e ci misi tre mesi e non so quante mail a farmi rimborsare la spesa inservibile coi detriti di guerra, e insomma ognuno ha il suo limite, e il mio è che se riempi di spese omaggio gli influencer per far raccontare che bravo fornitore sei, poi quando io ti do dei soldi non devi servirmi con meno d’un milionesimo dell’attenzione con cui fai promozione.
Che sembra una divagazione ma non lo è, giacché il punto è sempre: nell’epoca che ciancia tanto di relativismo, non abbiamo ancora capito cosa sia. Il mio relativismo è: se butti soldi nell’influencer marketing, o ne investi altrettanti in un servizio decente o io non ti uso. Ma è anche: risparmio sui telefoni da mille euro, non sulle ciliegie da dieci o venti.
Quello di chi deve far quadrare i conti dovrebbe essere che, non essendo tutto per tutti, così come non prenota una vacanza a Barbados, allo stesso modo non ordina aragoste per cena. Io le ciliegie le avrei comprate anche a ventisei euro, se le avessero avute sotto casa, perché mi piacciono molto e perché il vantaggio di avere cinquantadue anni e non venticinque è che non ti preoccupi dei prezzi delle cose sotto le quattro cifre.
No, scusate, ho un sussulto di sincerità: è perché non so mai i prezzi di niente. Non avevo idea, prima della foto su Twitter, di quanto costassero le ciliegie; sarei un pessimo candidato alle elezioni, il costo del litro di latte mi è sempre stato ignoto (pure quando ero una squattrinata venticinquenne), e la polemica che ho visto sul pane a nove euro l’ho guardata come mucca guarda treno: non mangio pane, non ho idea di quanto costi (ma ora ho capito che a nove euro è fuori mercato il pane e a ventisei le ciliegie: anche questo mese ho imparato una cosa).
Nel 1995 ho conosciuto la mia prima persona non nata ricca, era una producer di Tmc che mi raccontò che, prima che la assumessero lì, certe settimane era così senza soldi che mangiava uova e patate. Ricordo quella conversazione perché fu la prima volta in cui mi resi conto che esistono cibi che costano meno degli altri: non voglio produrmi in troppe perifrasi, e quindi userò quell’inflazionata parola e dirò che avevo avuto una giovinezza privilegiata.
Ma insomma: sono passati tre decenni, io sono diventata un’adulta, e ormai persino a me è chiaro che c’è gente che guarda i cartellini dei prezzi al mercato, e che le ostriche sono più care del merluzzo. Se avessi voglia di pesce e non avessi soldi, saprei cosa comprare. Perché invece Twitter è pieno d’indignazione in nome del fatto che «la frutta fresca di stagione è uno degli alimenti base della dieta umana dalla notte dei tempi» e insomma il prezzo delle ciliegie vìola la dichiarazione dei diritti dell’uomo? È perché sono giovani e anche loro hanno idee confuse sulle questioni di prezzi, o è perché l’umanità ha perso così ogni idea dei fondamenti dell’economia che pensa che il fatto che le ciliegie siano più care delle mele sia il «che mangino brioches» di questo secolo?
Di recente si sono lamentati, su quel social lì, di quanto costino i medicinali per i cani e di quanto i libri, e io temo di capire l’origine dello spaesamento: se hai vent’anni, non hai mai pagato niente. Hai piattaforme con migliaia di film a disposizione pagando la cifra che qualche anno fa ti costava il biglietto del cinema per vederne uno; connessioni telefoniche perpetue per la cifra mensile che qualche anno fa ti costava una lunga interurbana; voli per l’estero per la cifra d’un pieno per la Vespa (c’è ancora la Vespa o si capisce che sono vegliarda?). Chiaro che qualunque cosa ti venga fatta pagare una cifra non simbolica ti pare un sopruso, un affronto.
Alla gente dei social non piace che le si parli di costo della vita, giacché lo ritengono un modo per non alzare gli stipendi, epperò il costo della vita esiste, e non è uguale in diversi tempi e luoghi. L’altro giorno Matteo Renzi s’è instagrammato dicendo che un medico in Svizzera guadagna quattro volte quel che prende un medico in Italia, e io ho pensato: sì, ma l’ultima volta che sono stata a Lugano la tizia della carrozza ristorante del treno, prima di mettere a scaldare il toast che le avevo chiesto, mi ha consigliato di guardare bene il listino prezzi, perché forse il toast svizzero non potevo permettermelo (costava come quattro toast italiani).
La barista sotto casa mia è appena stata in vacanza a New York, ed è tornata stravolta dalla scoperta del concetto statunitense di mancia: a ogni cena, spiega incapace di farsene una ragione, era come se dovessimo pagare un coperto in più. Ho tentato di spiegarle la mia contrarietà politica alle mance, ma a lei non importava d’un sistema ignaro del diritto del lavoro che invece di costringere i padroni dei ristoranti a stipendiare decentemente i camerieri costringe i clienti a lasciare la mancia (e credo sospettasse mi stessi inventando tutto: continuava a borbottare «è come se avessero due stipendi»); lei era solo stravolta dalla scoperta che esistono posti al mondo dove non ti pesa cenare solo se hai uno stipendio di lì, e il cappuccino costa sei dollari.
«Adesso capisco perché entrano qui e prendono tre o quattro cappuccini», borbotta incredula. È stata la sua prima lezione di relativismo. Alla prossima vacanza la mandiamo assieme a Renzi su un treno svizzero. Poi a Ginevra possono farsi raggiungere da qualche ventenne con cui prendere un aereo, e andare a controllare quanto costi la frutta a Union Square. Al ritorno, sono curiosa di sapere se i ventenni considereranno ancora superflua ogni considerazione sul costo della vita.