Premetto di annoverare Andrea Di Consoli fra i miei affetti più cari. Pecca di ingenuità chi pensa che si scriva degli amici in quanto amici, il movimento avviene all’incontrario: l’amicizia emerge per via del talento, e non il talento per via dell’amicizia. È stata la ricerca di uno spirito affine con cui sdrammatizzare il mondo a cementare il mio affetto per lui, e la ricerca di un’ispirazione a farmi immergere nei suoi libri. Fino a che i libri non li ho letti tutti e Di Consoli non ha cominciato a dirmi che chissà quando – e se – avrebbe pubblicato.
“Dimenticami dopodomani” (Rubettino Editore) segna finalmente il suo ritorno. Ma come a volte accade nello sparuto cerchio di autori e poeti, si deve all’insistenza di uno scrittore ben preciso se il nostro si è smosso dalla pigrizia o dalla disillusione in cui si andava crogiolando. Non so in che modo Mario Desiati sia riuscito nel suo intento, ma so che in questi giorni siamo in molti a chiederglielo. Desiati firma, inoltre, l’introduzione al libro e chiarisce – per chi all’epoca non conosceva l’opera di Di Consoli –, come tutto ha avuto inizio.
Siamo alle soglie del nuovo millennio e a Roma e nel Mezzogiorno si stabilizza «una nuova generazione di scrittori meridionali. Stile Libero che aveva lanciato i Cannibali, pubblica i Disertori con autori trenta/quarantenni nati e cresciuti sotto Roma. Besa, un editore più piccolo, traduce con maggiore efficacia il concetto dell’antologia einaudiana col titolo Sporchi al sole. Anche in questa antologia ci sono esclusivamente scrittori meridionali. Cosa c’entra questo antefatto con le poesie di Andrea Di Consoli. Il contesto. Di Consoli è lo scrittore come lo immaginavano i curatori di quelle antologie appena citate, un disertore e anche uno sporchissimo al sole, ma molto più giovane di quegli scrittori meridionali che emergevano durante l’inizio del decennio, con una sua originalità che però avrebbe creato sgomento, come se uno tra i semi piantati nel solco fosse rimasto un seme solitario sulla nuda terra e lì è attecchito».
Un seme solitario. Trovo sia una definizione bellissima di Di Consoli, autore di un’antologia ondivaga per stile e per forma, che passa disinvolta dalla poesia al romanzo e dal romanzo alla frammentazione, come accade in “Diario di uno smarrimento” (Inschibboleth), il suo precedente, memoir tanto più personale quanto universale che meglio di altri libri è in dialogo con il nuovo; solitario perché diffidente verso alcune soluzioni condivise dalla modernità, ma altresì lontano dal canone; solitario perché sulle sponde di una scrittura che cambia e che di volta in volta si smembra, fino a ricomporre i suoi pezzi in quest’ultima raccolta.
È un arrivo, non solo un ritorno, quello di Di Consoli. È anche l’inizio di qualcosa che finora ha lambito la superficie, venendo di tanto in tanto a galla con la grazia di una creatura marina. Piccole micce disseminate nei suoi scritti che adesso esplodono in questa grande galleria di racconti poetici, abitati dai temi sempre cari all’autore: gli uomini con le proprie incertezze, gli uomini con le proprie aperture.
Eccolo lo scintillio della commedia umana che attraversa i componimenti di Di Consoli, sia nella poesia che nella prosa, e che erompe ora con una nuova forza. Ecco la luce crepuscolare delle scene madri, degli scorci sfocati o dei limpidi dettagli con cui l’autore costruisce i suoi versi liberi.
Ugualmente corsi sotto la pioggia torrenziale;
ero bagnato come avessi nuotato nel mare coi vestiti, e piangevo, perché mi ero ridotto così male
– ma le lacrime le lavava la pioggia.
«Non è un caso se le metafore sono acquatiche», fa notare Desiati. Il torrente dentro cui Di Consoli trascina i lettori si compone di morbidi scivolamenti, quando ad abbracciarci è la tenerezza di un riconoscersi, momentaneo caldo senso d’appartenenza, o d’improvvise accelerazioni, quando l’endecasillabo chiosa mettendo in chiaro ciò che era spuntato con la vaghezza di una domanda.
Lungo questi mari, l’enormità di alcuni sentimenti come l’amore paterno rimpicciolisce per trovare un centro nello scorcio della semplice – ma è solo un’illusione ottica – quotidianità.
Un uomo è davanti al figlio un po’ annoiato, alle loro spalle il McDonald di Torpignattara: «Me ne accorgo perché ci sono passato, e riconosco il senso di colpa sulle facce dei padri – le attenzioni eccessive, gli ascolti forzati, le premure disperate, ma anche gli improvvisi silenzi, i rancori non detti, quel non saper litigare per imbarazzo, e per una penosa sconfitta condivisa. I figli dei padri separati parlano poco, ma pure i padri separati parlano poco».
Un vecchio rimpiange la badante come un ragazzino innamorato e non corrisposto: «Perché la gente va via così: senza dire niente. / L’avrà chiamata per scuoterla, ma inutilmente. / È morto d’amore guardando in solitudine Striscia la notizia, / bevendo il vino delle cantine di Castrovillari, /pensando che se l’amore non torna, allora è meglio morire».
E tuttavia nella desolazione, o nella prossimità della fine, vibra nelle poesie di Di Consoli sempre un palpito radioso. È uno sguardo che esprime clemenza, il suo, perfino nel giudizio:
I paesi non sono clementi, con chi soffre.
Ti isolano, ti parlano alle spalle.
Sono fatti così, i paesani.
Sono inutilmente crudeli.
La prima volta che ho letto questa raccolta, Di Consoli era ancora indeciso sul titolo. A me sembrava più giusto “Di spalle all’infinito” – sempre da un suo verso –, perché è così che ci si sente leggendo, quasi ci si sedesse nella caverna di Platone per fissare il mero riflesso della verità, e dunque tutta la casinara e bella imprecisione del nostro sentire. Ma aveva ragione lui: “Dimenticami dopodomani” esprime con esattezza la cifra di questa struggente oscillazione che l’autore rintraccia anche nei gesti più insignificanti. Brandelli di vita semplice offerti al lettore in una lingua fintamente semplice, in cui risuona l’eco dei classici e lo stesso elegante respiro della poesia in versi.