Un tempo, di fronte alle nostre miserabili vicende politiche, si poteva dare un’occhiata oltre Chiasso e sperare nella Gran Bretagna liberale e nell’America dei diritti, paesi seri e affidabili che fungevano da città illuminata sulla collina per indicare a noi disperate vittime degli opposti estremismi una strada sicura verso la libertà e lo stato di diritto.
Oggi, invece, ovunque ci voltiamo non troviamo rifugio, considerato che Emmanuel Macron nel 2027 non potrà più ricandidarsi all’Eliseo e che al momento non sembra in grado di fermare la destra pro russa e la sinistra venezuelana del suo paese. Keir Starmer a Londra deve ancora ricucire le ferite causate dall’operazione speciale russa della Brexit e dal settarismo anche antisemita della sinistra radicale, mentre l’America potrebbe addirittura eleggere un presidente golpista, stupratore e truffatore.
C’è però la nuova Europa liberale e antitotalitaria a prefigurare un futuro meno tenebroso per il Continente, grazie alle leadership illuminate dei paesi baltici, perché lì a un passo da Mosca, e con quella storia da colonie alle spalle, sono perfettamente consapevoli del pericolo russo che incombe anche su di noi.
C’è anche un altro vero leader europeo, assieme a Macron, il polacco Donald Tusk, a darci speranza, per non parlare dei resistenti di Kyjiv e del popolo georgiano che si ribella a quell’imperialismo russo che tanto piace a mezzo arco costituzionale italiano, ai capilista del Partito democratico, e alle cloache massime televisive.
Il bipopulismo perfetto italiano infesta come la gramigna il dibattito pubblico, già tossico di suo per l’inquinamento da fake news e da ingerenze russe e domestiche. Resiste soltanto il Quirinale, e infatti se ne vogliono sbarazzare con una delle riforme più fesse mai ideate dai peraltro fantasiosi riformatori italiani. Resiste anche qualche esponente politico del Pd, come ieri per esempio Filippo Sensi, con uno splendido discorso al Senato, ma Sensi e gli altri sono sempre più isolati e imbarazzati dai loro compagni.
Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono quello che sono, Antonio Tajani non è nemmeno quello. La destra intellettuale è di una pochezza sconcertante, popolata da analfabeti della democrazia e affidata alle cure di agiografi di Vladimir Putin e di Donald Trump, capaci solo di circondarsi di felloni antidemocratici e di camerati riemersi dai sistemi di riciclo delle acque reflue.
Anche gli intellettuali della destra più presentabile fanno venire l’orticaria, perché sembrano persone normali ma poi pensano che in fondo Trump non è così male, e si struggono per il presidente argentino Javier Milei, un saltimbanco spettinato dalla mano invisibile di Adam Smith, dotato di motosega con cui tagliare il settore pubblico, ma comunque ammiratore di Trump e nostalgico delle giunte militari sudamericane (cari amici liberisti, infatuati dalla furia antistatalista di Milei, a me pare di ricordare che il campione del liberalismo fosse la Thatcher delle Falklands non il generale Galtieri delle Malvinas, o no?).
La sinistra vabbè, non serve aggiungere altro al Giardino dei Finzi Giannini e alla brigata liberté, égalité, chat privé, con i mille partigiani prontissimi alla rivoluzione, ma costretti a rimandare perché al momento non riescono a iscriversi al gruppo Facebook.
C’è la sinistra dei finti pacifisti ma veri guerrafondai che parteggiano per i tagliagole di Mosca, Gaza e Teheran. Ci sono anche i funzionari della polizia del pensiero bravi a linciare chiunque sbagli un pronome e ad applaudire chi invoca la cancellazione, dal fiume al mare, degli ebrei.
Ieri su Twitter c’era un tizio, che un tempo addirittura scriveva per il Mulino, che elogiava «il comunismo nel sud-est asiatico», cioè Pol Pot, gli Khmer rossi e i Vietcong, perché «ha lottato per libertà, indipendenza, ha portato sviluppo economico e affrancamento dal giogo straniero».
Una destra trumpiana da motosega e una sinistra putiniana, antisemita e pure polpottiana che insegue il nulla mischiato a niente dei babbeiacinquestelle. Siamo messi davvero bene.
L’alternativa al bipopulismo purtroppo oggi non c’è, e chissà se mai ci sarà visto che alle Europee di giugno Emma Bonino e Matteo Renzi sono riusciti a mettersi insieme, mentre Carlo Calenda ha deciso di andare da solo aumentando il rischio (per tutti) di non superare lo sbarramento del quattro per cento, come i picchiatelli di Michele Santoro.
L’8 e il 9 giugno chi non vuole morire populista avrà poche chance di farcela, ma questo non vuol dire che bisogna sprecare il voto e rinunciare a provare a portare qualche deputato sano di mente a Bruxelles, a sostegno del gruppo Renew Europe di Macron, ma anche dei socialisti meno sciocchi di quelli nostrani. È un petit programme, quindi si può fare.