Aprire fuori porta non è una fuga, né una soluzione comoda per ovviare alla concorrenza della patinata ristorazione milanese. Si tratta di inserirsi in un nuovo habitat, di rendersi ospiti in un meccanismo (socio-economico) che ha già delle dinamiche proprie e consolidate, e che non necessariamente è disposto ad accogliere elementi di novità, a meno che non ne valga davvero la pena.
Bisogna essere disposti a ripensarsi, a trovare la giusta chiave espressiva per addentrarsi in un territorio inesplorato e conquistarsi il proprio spazio, ora procedendo in punta di piedi, ora con una proposta estrema, di rottura e provocazione rispetto all’abitudine e allo stereotipo. Ma ogni cosa a suo tempo e ogni ristorante a suo modo.
Due fratelli, cinque tavoli e un menu consacrato alla selvaggina (in Brianza)
Il caso forse più eclatante (e in vista) del momento è quello dei fratelli Matteo e Riccardo Vergine (rispettivamente chef e sommelier di 26 e 30 anni), due brianzoli “atipici”, che ad Albiate hanno aperto Grow Restaurant, un fine dining nella “campagna selvaggia”, nonché uno dei ristoranti attualmente considerato tra i più estremi d’Italia, insignito della stella verde Michelin lo scorso novembre e subito dopo premiato con due Cappelli dall’Espresso, che lo ha inserito nella Guida 2024.
Merito di un’idea di cucina intesa come rispettosa espressione di un luogo, con il suo paesaggio e la sua biodiversità naturale (tra orto, erbe selvatiche, selvaggina e pesce di lago), portata avanti in un locale con solo cinque tavoli, il cui menu prevede una serie di piatti modernissimi nell’aspetto, realizzati con tecnica, studio e creatività, ma basati su sapori ancestrali e tecniche di procacciamento degli ingredienti primordiali, come caccia, pesca e raccolta dei frutti spontanei della natura.
Al centro di tutto ci sono la volontà etica di valorizzare il territorio e il desiderio di tornare a un passato in cui nulla era dovuto e tutto doveva essere procacciato con la fatica, il rispetto della natura e la collaborazione tra esseri umani.
Ecco allora che da Grow l’impegno per la sostenibilità si declina non soltanto sul fronte ambientale (con l’approvvigionamento del cento per cento dell’energia elettrica da fonti rinnovabili, l’eliminazione del gas metano, la destinazione degli scarti di cucina al compostaggio, la rinuncia all’utilizzo di carne o pesce derivanti da allevamenti e il rispetto dei periodi di fermo pesca e fermo caccia) ma anche sul piano sociale, attraverso l’impiego nell’orto di Briosco di persone affette da disabilità ed ex carcerati in cerca di occupazione, nell’ambito di un progetto che coinvolge la Regione Lombardia e varie associazioni di volontariato.
L’obiettivo è mostrare che non c’è solo Milano, in cui si può volere e ottenere tutto e subito, senza soffermarsi sui costi (non solo economici ma anche ecologici) dei propri desideri, e proporre una ristorazione “alta ma etica”, che si adegua ai ritmi della natura e soprattutto non inventa nulla di nuovo ma semplicemente recupera e reinterpreta le ricette lombarde della domenica in famiglia, mixandole con tecniche esotiche come l’uso dello yakitori e il recupero delle salse come si facevano prima della nouvelle cuisine (non alcune ore, ma alcuni giorni).
Il bello degli ossimori. Lusso stellato (con qualche divagazione) in una location che celebra l’operosità lombarda
Altro esempio di fine dining decontestualizzato, che vive in sinergia con un territorio votato al lavoro è Trattoria contemporanea, il ristorante dal nome dicotomico inaugurato nel 2021 all’interno di un ex cotonificio ottocentesco di Lomazzo (Como), un edificio in mattoni e grandi vetrate, dove convive con Fabbrica campus, uno spazio tecnologico e visionario di co-working e co-learning (con uffici, sale meeting, aree eventi e spazi per meeting, eventi, corsi di formazione, di teatro e sport), nato dall’idea di quattro imprenditori dal carattere visionario e pensato come luogo di incontro, contaminazione e opportunità.
Insignito di una stella Michelin a un solo anno dall’inaugurazione, il ristorante può fregiarsi della brigata di cucina più giovane d’Italia (età media venticinque anni), formatasi in patria e all’estero e capitanata da chef Davide Marzullo, con la sua instancabile voglia e il coraggio di fare la differenza, attraverso una proposta immersiva, fatta di istinto, passione e coraggio (attitudini che danno il nome ad altrettanti menu degustazione), rispettosa del passato, basata su materie prime povere del territorio, ma riletta e riscritta nelle preparazioni in maniera giocosa, irriverente e sorprendente. L’intenzione è quella di rendere appetibile a un pubblico moderno ricette che non esitano a utilizzare frattaglie e interiora, abbinate a ingredienti considerati più nobili, per spezzare l’abitudine della consueta cena, a favore di un’esperienza più informale e divertente, al limite dell’irriverenza.
Lo dimostrano la sensualità di alcune portate, che richiedono letteralmente di “leccare il piatto” o di giocare col cibo trasformandolo in intrattenimento: dallo show del carrello del pane, del burro, dei taralli e dei sali dal mondo, al servizio dei maritozzi, serviti al tavolo su una ruota panoramica in miniatura e farciti al momento in base alle preferenze del cliente. La ciliegina sulla torta? Un passaggio alla toilette, definita dal personale stesso del ristorante «un’esperienza mistica»: un ambiente a luci rosse sia in senso metaforico sia nella realtà cromatica, che vuole essere un invito a sorridere e ad abbandonarsi per tutti coloro che si siedono a tavola.
Un motivo in più per lavarsi le mani prima di cena!
Ri-cominciare e ri-conoscersi: due chef in fuga dal centro riaprono fuori porta
Lasciare la vetrina di un ristorante-galleria d’arte come il The Manzoni (al tempo stesso meta gourmet e spazio espositivo per le creazioni di Tom Dixon), nell’omonima via in centro a Milano, per inaugurare un locale a Seregno. Ecco cosa hanno fatto gli chef Giuseppe Daniele e Gabriele Fiorino (rispettivamente 32 e 29 anni) dando vita a Unitum. Il ristorante, inaugurato a ottobre 2023, fin dall’insegna evoca il senso dell’unione, intesa non solo come comunione d’intenti tra i due soci e amici, ma anche come recupero di un contatto con una dimensione sociale di prossimità più autentica, con la materia prima (scelta fresca ogni giorno dagli chef in persona e lavorata subito per valorizzare al meglio ogni ingrediente) ma soprattutto con un pubblico che smette di essere anonimo consumatore per diventare clientela fidelizzata.
«Costruire un rapporto con questa nuova realtà implica l’esserci, ogni giorno e a ogni servizio, in sala come in cucina. Significa scegliere di avere solo 25 coperti per trovare il tempo di girare tra i tavoli e rivolgere qualche parola a ciascun commensale. Vuol dire calibrare l’offerta in base a ciò che chi ancora non ci conosce è pronto ad accogliere, aspettando che i tempi siano maturi per spingere di più sull’acceleratore».
Coerente con questa visione è la scelta di completare tutti i piatti direttamente in sala, utilizzando come pass il bancone ereditato dal panificio che il locale ospitava in un’altra epoca della sua storia. Un pezzo artigianale di recupero composto da briccole dei canali di Venezia, che testimonia un passato di quartiere e domina lo spazio con la sua essenzialità vintage, contendendosi l’attenzione con gli elementi di design (dalle sedute alle cornici vuote che decorano le pareti) realizzati con un fantasioso riutilizzo di materiali di scarto della produzione delle vele e di altre produzioni industriali dall’eco project 13Ricrea.
Ma il vero strumento per entrare in contatto con il cliente è la cucina: pochi piatti composti con massimo tre ingredienti, trattati con tecniche all’avanguardia ma capaci di restituire un sapore familiare e di casa (come i tortelli con ricotta fresca di pecora, mandorle tostate e acqua di tre pomodori, realizzati con le materie prime provenienti direttamente dalla Sicilia, o il galletto alla cacciatora, un piatto della mamma per chef Daniele, che lo realizza con la confettura di peperoni del nonno).
L’obiettivo? «Ritagliarsi uno spazio nella nuova realtà di Seregno (meta di un pubblico competente grazie alla trentennale presenza del Pomiroeu di chef Morelli a pochi civici di distanza), conquistare la fiducia della clientela e poterla condurre per mano fino a lasciarsi conquistare da una cucina più spinta, magari puntando sulla selvaggina» che fa parte della tradizione gastronomica della zona.
Insomma, oggi la proposta di Unitum si divide tra due menu: Liberum arbitrium, che rivendica la possibilità del cliente di poter scegliere liberamente alla carta, e Confido et sequor (“mi fido e seguo”), un percorso degustazione inteso come dichiarazione di fiducia. Ma per il prossimo futuro la speranza è che sempre più avventori vogliano affidarsi e lasciarsi guidare da questi due giovani chef che hanno ben chiara la meta (e si stanno godendo il percorso).
Tornare a casa e creare un locale con l’anima (anzi due)
Crearsi un’identità propria in una realtà defilata, lontano dalla frenesia congestionata della ristorazione delle grandi metropoli, che fa molto rumore ma sempre più spesso ha ormai poco da dire. Questo è stato il progetto alla base di Soul Restaurant, il locale aperto a Legnano nel 2018 da Fabio Mecchina (da poco entrato nella nuova guida Jeunes Restaurateurs JRE Italia) con la moglie sommelier Gloria Marchesoni.
Dopo una lunga esperienza all’estero, soprattutto nelle cucine e sale più prestigiose di Londra, questi due giovani (rispettivamente 35 e 36 anni) hanno scelto di tornare “a casa” e dare vita a un luogo rassicurante, capace di far sentire accolti anche i propri ospiti, ma al tempo stesso di fargli provare qualcosa di nuovo e più autentico rispetto al meticciato-fusion di una cucina milanese che ormai risente inevitabilmente dell’ansia da prestazione causata dai riflettori della moda gourmet puntati addosso.
Qui può prendere vita una proposta gastronomica ragionata e realizzata a quattro mani, in cui le suggestioni esotiche e l’applicazione delle tecniche più raffinate e internazionali sono funzionali a una cucina che è frutto di passione, creatività e ricerca sul territorio, che parte dagli ingredienti e prosegue con l’abbinamento dei vini.
Tutti i piatti (suddivisi tra menu à la carte e due percorsi degustazione: Soul Experience e Soul Essence, di cinque e otto portate) spiccano per la riconoscibilità dei sapori, abbinati in modo mai scontato e mai banale, ma anche per la presenza, in ogni portata, di una nota aromatica particolare, conferita dal sapiente uso di erbe, spezie e radici (come verbena, scorzonera, liquirizia, camomilla, cirmolo, ibisco, rabarbaro) ma anche di un tocco esotico (con lime, yuzu, teriyaki, miso, saké e alghe), che dà un inatteso equilibrio al piatto e una coerenza alla successione delle portate. E invoglia a tornare, di tanto in tanto, per provare la novità, ma soprattutto per ritrovarsi in un porto sicuro, in cui a essere coccolato non è solo il palato ma anche lo spirito.
Insomma, ci sono sempre più motivi culinari per guardare oltre il panorama gastronomico della metropoli e spostarsi (a cena) verso una provincia dove, sdoganati gli stereotipi della milanesità snob anche in fatto di cibo, stanno sorgendo vere e proprie oasi nelle quali la cucina può riappropriarsi della sua filosofia più genuina, fatta di ricerca e gioco, rievocazione della tradizione, sperimentazione innovativa, contaminazione tecnica e piacevolezza sensoriale. Con qualcosa in più: il coraggio.