Esperienze multisensoriali, gusti ricercati, una cucina in continua trasformazione, ma comunque capace di raccontare una tradizione e di aprire nuove finestre sul mondo: questo è ciò che oggi cerca il cliente, sempre più attento alla qualità, all’unicità e all’autenticità dell’offerta e capace di scegliere con consapevolezza. La ristorazione si adegua proponendo format innovativi e “concettuali” che puntano ora sulla spettacolarizzazione della cena, ora sulla semplificazione del menu che sfiora la rudezza, senza mai tradire l’intento di emozionare e offrire momenti indimenticabili (a prescindere dalla cucina).
Questione di gusto, ma non solo: la rivincita della sala
Oggi i clienti sono più competenti in fatto di materia prima e i vini, più attenti a ciò che hanno nel piatto e nel bicchiere (al junk food preferiscono un comfort food di qualità e ai classici drink alcolici preferiscono bevande salutari e mocktail), ma proprio per questo più inclini a lasciarsi stupire con sapori caratterizzati dal contrasto a sorpresa, da combinazioni inusuali ed esotiche, ma anche da soluzioni innovative per ridurre gli sprechi. Tutto fa parte della nuova mentalità per cui “mangiare fuori è provare un’esperienza”, un momento di riflessione ma anche di relax, che pone al centro il benessere tanto fisico quanto mentale, andando a lavorare positivamente sulle emozioni, ancor più che sul palato.
In questo senso la sala (intesa come spazio fisico prima ancora che come gestione del servizio) acquista un’importanza del tutto paritaria rispetto alla cucina (se non, in alcuni casi, superiore): qui si compie la magia che permette al cliente di sentirsi al centro di una situazione speciale, unica e “personalizzata”. Se questa aspettativa viene soddisfatta, si innesca il meccanismo di fidelizzazione che spinge il cliente a tornare più volte.
Il cliente al centro, l’ospitalità torna “sacra”
Per esprimere il nuovo trend “customer-oriented” della ristorazione contemporanea c’è un termine specifico, tutt’altro che nuovo: si tratta di xenìa (“ospitalità” in greco antico), un’azione “sacra” che consisteva nel rispetto reciproco tra ospitante e ospite, e nel cercar di soddisfare al meglio le necessità di quest’ultimo (nella convinzione che, sotto le spoglie degli stranieri, si potesse celare un dio pronto a mettere alla prova la generosità degli uomini) per lasciargli un ricordo gradevole di sé. Anche nella cultura cristiana il senso di accoglienza era forte e importante; l’ospite era paragonato a Cristo, e l’ospitante per eccellenza era rappresentato dalla figura biblica di Abramo, disposto ad accogliere nella propria casa e alla propria mensa lo “straniero” inteso come incarnazione umana dello Straniero per eccellenza: Dio, uomo o angelo, metafora dell’alterità irriducibile e inassimilabile.
Oggi questo valore sacrale dell’ospitalità permane soprattutto in Oriente, dove si traduce in un dovere che ha a che fare con i gesti quotidiani e accomuna ricchi e poveri, culture e religioni diverse (dall’Islam all’ebraismo, fino al buddhismo e al taoismo).
Va da sé che anche nel settore Horeca l’approccio focalizzato sul cliente si sia finora espresso soprattutto nelle realtà orientali (dagli hotel in stile nipponico ai ristoranti fine dining cinese e giapponese), in cui tutto (dall’arredo alla cura dei piatti fino alla gestualità del personale) è pensato per risultare “su misura” rispetto ai desideri e ai bisogni di un ospite sempre considerato “speciale” e posto al centro di un’esperienza capace di farlo sentire protagonista.
Ma ormai sono sempre di più i ristoranti occidentali che hanno preso coscienza di quanto tale modus operandi sia fondamentale per avere successo, nella consapevolezza che il “come” (e il “dove”) conta più del “cosa” viene servito. Occorre quindi lavorare sul percepito, sul visual e sul valore aggiunto che emerge dai dettagli e da tutto ciò che non viene decifrato a livello razionale bensì captato dall’inconscio.
Domò Sushi, sentirsi “a casa” per mettersi in viaggio
Va in questa direzione il nuovo indirizzo di cucina giapponese Domò Sushi che ha da poco aperto a Milano, in via San Marco. Il ristorante, secondogenito del brand che ha già una sede a Roma, nel quartiere Parioli, è situato all’interno dell’Ex Museo dei Navigli ospitato negli spazi imponenti (1500 metri quadrati su due livelli) di una dimora storica, e dopo una ristrutturazione di cinque mesi e un restauro pressoché totali (voluti dal proprietario e giovane imprenditore Massimo Sun insieme a Flaminia Ceccarini, general manager e “intelligenza emotiva” del team, e firmato dallo studio Naos Design di Dario Alessi), oggi è un connubio di due epoche dentro la stessa location e può dirsi una delle mete più eleganti e glamour per chi vuole non solo mangiare bene, ma soprattutto vivere un viaggio sensoriale, gustativo e spirituale capace di coinvolgere il cliente a 360 gradi, in un’esperienza di scoperta, di avvicinamento interculturale e di esaltazione della coscienza del proprio sé.
Infatti, se l’offerta gastronomica di Domò Sushi Milano è versatile e originale (ottanta piatti realizzati dall’executive chef Antonio Dai, per un massimo di duecento commensali), e può contare su una materia prima eccezionale che celebra la tradizione nipponica e la qualità made in Italy senza rinunciare alle influenze sudamericane ed europee, il vero punto di forza del locale (che fin dal nome scelto per l’insegna manifesta un rimando al concetto della domus romana, la casa nel senso di accoglienza, ma anche di regalità) sta proprio nell’attenzione ai dettagli d’ambiente, che sono il diretto riflesso di altrettanti gesti di cura verso il cliente.
Dalla scelta degli arredi con forme sinuose e materiali naturali, cromie calde e texture avvolgenti (con superfici in legno e travertino; raffinate contro-pareti in lamiera metallica traforata e retroilluminata che mimano la texture della natura e delle foglie; divani circolari free-standing in elegante velluto tecnico e una fontana in pietra a memoria del passato storico dell’edificio) all’illuminazione (gestita con un sistema di domotica per garantire l’intimità degli ambienti ma al tempo stesso assicurare una buona visibilità che non affatichi l’occhio), dallo studio della temperatura, dei suoni e della loro intensità, fino alla disposizione delle sedute e dei tavoli nello spazio, tutto qui è pensato per ottenere la massima espressione della food experience, per accompagnare gli ospiti in un viaggio culinario e culturale senza confini (né di territorio, né di menu), ma anche per creare momenti di condivisione, stupore, divertimento e soprattutto benessere, che rappresentino un implicito invito a tornare.
Nuovo-vecchio Manna, «Tutto cambia perché nulla cambi»
La citazione del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa non potrebbe adattarsi a un ristorante con più coerenza che a Manna, il locale milanese che Matteo Fronduti (originario di Gorla e vincitore della prima edizione di Top Chef Italia nel 2016) ha aperto nel 2008 in Piazzale Governo Provvisorio, nel quartiere oggi conosciuto come Nolo (a nord-est di Piazzale Loreto). Diretta emanazione della personalità dello chef patron, Manna ha portato avanti negli anni un’idea di cucina milanese autentica, creativa, verace e senza compromessi.
L’estate scorsa il locale ha chiuso per riaprire l’1 dicembre con un look completamente rinnovato, curato nei minimi dettagli (studiati personalmente dallo chef e realizzati dallo di architettura Studio BDA di Alberto Barbieri) con l’obiettivo di «adeguare il “contenitore” all’eccellenza dell’offerta gastronomica», che da sempre fa di Manna qualcosa di più di un locale in cui andare a mangiare (magari perché in zona non c’è molto altro), trasformandolo a tutti gli effetti in un luogo di elezione per vivere a tavola un’esperienza senza limiti né pregiudizi.
Dunque la proposta della cucina è rimasta la stessa sia per il menu (tre degustazioni più una mini-carta) sia per i prezzi, per «rassicurare i clienti e dimostrare loro di aver mantenuto la stessa identità e cifra stilistica del vecchio Manna», mentre gli spazi e gli arredi hanno subito un profondo restyling in ottica customer-oriented: «Dal sistema di climatizzazione alle luci (precise e intense sul tavolo, soffuse nel resto dello spazio, ndr), all’acustica, dalla mise en place volutamente minimal, fino alla disposizione dei tavoli (pezzi unici e artigianali, in cemento inamovibile), tutto è stato focalizzato sul cliente e pensato per garantire all’ospite il massimo comfort», anche a costo di sfidare le simmetrie dello spazio, di corrompere l’equilibrio tra pieni e vuoti e di rinunciare all’aggiunta di qualche coperto (rispetto ai quarantaquattro già esistenti).
Sfida ai tabù provinciali: la trattoria si fa osé (e fine dining)
Ultima ma non ultima, Trattoria Contemporanea: il ristorante ospitato al piano terra di un ex cotonificio dell’Ottocento a Lomazzo (Como), un edificio in mattoni con grandi vetrate, sede di Fabbrica Campus, un polo tecnologico che accoglie spazi di coworking e aree dedicate al tempo libero, all’incontro, alle opportunità e alla creazione di idee. Cucina e sala sono interamente in mano a una brigata giovane, coraggiosa, dirompente e desiderosa di fare la differenza, a partire dall’executive chef Davide Marzullo, che a soli ventisette anni ha già all’attivo una stella Michelin (e vuole la seconda!). Qui ogni giorno viene messa in atto una giocosa (ma ambiziosissima) sfida ai pregiudizi culinari, ai canoni e categorie della ristorazione contemporanea, con una proposta che, dal cibo alla location, fino all’interazione con il pubblico e del coinvolgimento del cliente, si fa ossimorica portavoce di un progetto visionario, pensato per dare un punto di convergenza a passato e futuro.
Basterebbe la declinazione fine dining del quinto quarto a esprimere l’intento sovversivo del locale, ma la vera provocazione sta oltre: nella capacità di risvegliare nel commensale quel desiderio infantile di “giocare col cibo” che da piccolo gli era impedito, di concretizzare in modo lecito il bisogno di “leccare il piatto” (come esplicitamente previsto da alcune portate), di vivere un’esperienza mistica entrando in una toilette “a luci rosse” e infine nel sentirsi protagonista di un servizio al tavolo “su misura” (dalla proposta del pane con burro di Normandia e scelta di sali dal mondo, fino alla scelta della farcitura “live” dei maritozzi).
Anche qui tutto è studiato per raccontare una, cento, mille storie: quella testimoniata da luogo intrinsecamente industrial e da una cucina basata su materie prime povere che omaggia il passato, e quella dell’ospite che viene accolto da un design contemporaneo (pensato in un’ottica moderna, seppur di riciclo e riutilizzo) e invogliato a lasciarsi stupire da una proposta pregna di qualità e tecnica, ma anche giocosa, ammiccante e capace di anticipare ed esaudire i tuoi desideri più innocenti eppure più difficili da confessare.
Verso nuove identità
Appare sempre più chiaro che le scelte identitarie (in fatto di struttura, accoglienza, modo di fare) saranno la salvezza della ristorazione e ciò che continuerà a invogliare le persone a “mangiare fuori”. Per far vivere alle persone esperienze uniche, il ristorante deve trasformarsi in un mondo aperto, di opportunità e bellezza nelle sue espressioni più sincere, che partono dal buon cibo da assaporare e condividere, per trasformarsi in un percorso verso il proprio sé interiore, in un’elevazione della coscienza che porta a ritrovare (scoprire?) sé stessi.
Insomma: cibo sì, ma soprattutto per il cuore e per l’anima.