Il pane va impastato, cotto, sfornato, venduto, servito, tagliato, mangiato. Ma il pane va anche spiegato, narrato e raccontato. A tutti i costi. Costi quel che costi. Per far capire il perché del suo costo. «Nell’elenco della spesa il pane è sempre stato l’elemento meno incisivo in assoluto. Un tempo lo si vendeva addirittura a pochi euro. Le cose sono cambiate (per fortuna, ndr) e ora il pane può arrivare a costare quindici euro al chilo. Per tanti buoni motivi. Perché bisogna tenere conto di molti fattori e di molte voci di costo: dalle materie prime al personale, che deve essere competente e performante; dall’affitto del locale, sempre più alto, specialmente nelle grandi città, sino alla comunicazione, ormai imprescindibile», spiega Edoardo Moussanet, al tavolo 17 dell’hackathon del Festival di Gastronomika.
Edoardo, sebbene non abbia mai messo le mani in pasta, ha spesso e volentieri macinato idee, lanciando startup vocate al pane. Sì, il pane costa di più. E costa ancora troppo poco. Ma il punto sta nel far capire e nel ribadire costantemente il perché del suo valore. Perché dentro quel valore vi sono la terra, il sole, la pioggia, i campi di grano, la fatica dei contadini, quella dei mugnai e quella degli artigiani.
Dentro quel valore finiscono le ore di produzione, l’energia elettrica e l’energia mentale e fisica, i gesti di chi sta in laboratorio e al bancone. Dentro quel valore vi sono l’affitto, le pulizie, il sacchetto, il packaging, il logo, le foto, i social, il pensiero. Dentro quel valore c’è un universo. Che non ha prezzo, ma che si traduce inevitabilmente in prezzo. Forse solo in questo modo si può comprendere che il pane non costa caro, ma che ci deve essere infinitamente caro.
La narrazione, una conditio sine qua non
Il pane deve raccontare. E si deve raccontare. Nella sala di un ristorante o dietro il banco di un panificio. «A scuola abbiamo un ristorante didattico e ci insegnano lo storytelling del pane e dei grissini. E notiamo come i commensali siano interessati e si mettano in ascolto», afferma Marina Rosario, alunna di quarta all’istituto superiore Il Maggia di Stresa.
«Noi siamo partiti come un panificio di quartiere, in Isola. Facendoci conoscere con il passaparola, a costo zero. Ma a un certo punto è scattata la consapevolezza che il quartiere intorno a noi non bastava più. Era necessario andare oltre quei tre minuti di esperienza che il cliente viveva entrando nel nostro spazio. Volevamo restare nella testa delle persone. Perché se vero è che siamo tutti simili, è altrettanto vero che siamo tutti diversi e che dobbiamo essere in grado di far emergere la nostra unicità e la nostra personalità», svela Silvia Cancellieri, orgogliosamente panettiera e co-founder di Tondo, forno artigiano che si fa notare in via Cola Montano, a Milano. Mentre su Instagram si fa largo con il refrain «Impastiamo storie di agricoltori, mugnai, farine bio e lievito madre».
Storie che nutrono il pane e che devono accompagnare il pane. «Così abbiamo deciso di seguire un corso digitale: costo duecento euro. Ma il risultato è stato mediocre. Per questo abbiamo budgettizzato quindicimila euro all’anno da destinare alla comunicazione. Notando un aumento di follower di qualità, di follower interessati», ribadisce Renato Nassini, sodale di Silvia nel Tondo progetto. Pronto a mettere nell’elenco delle spese vive anche quelle necessarie per la gestione professionale dei social.
«Comunicare è importantissimo. Non solo per uscire dalla propria comfort zone, ma pure per arrivare a differenti fasce di età, per selezionare meglio la clientela e al tempo stesso per allargare e implementare la clientela», aggiunge Federico Durzu: classe 1994 (tutti i partecipanti al think thank hanno meno di quarant’anni), radici cagliaritane, vincitore (insieme a Simona Balia) del Girotonno 2023 a Carloforte e fiero di essere rimasto ancorato alla sua amata isola. Una Sardegna che può contare su di lui, ora alla regia della cucina di Sabor’e Mari, ittiturismo in quel di Teulada.
Brand book (aka bread book)
Una narrazione del pane che deve correre lungo i social, certo. Ma che deve cominciare nel laboratorio e dietro il bancone di un forno o nella cucina e nella sala di un ristorante. «È essenziale avere un brand book. Da leggere, da consultare e da utilizzare, per non sprecare tempo e soldi, ma per spendere bene tempo e soldi», puntualizza Luca Lotterio, ceo di Restworld, agile e moderno sistema di recruiting, aka un’agenzia per il lavoro digitale che mette in connessione domanda e offerta nel settore horeca.
«Avere un brand book fa risparmiare in tutti i sensi. Perché non si può pensare ed essere “A” e poi comunicare e apparire come “B”. Nel brand book devono trovare posto tutti i valori aziendali. Il che significa la storia, la visione, l’organizzazione, la ricerca, il piano di sviluppo, i colori, il logo, le parole da usare e non usare, il modo di porsi nei confronti della clientela. Valori che devono essere condivisi da tutti: sia dallo staff sia dall’agenzia di comunicazione e marketing. Perché tutti devono essere allineati su tutti i fronti. Sempre facendo in modo che ogni aspetto risulti coerente con l’idea e con la filosofia di partenza. Coltivando in tal modo un senso di appartenenza», continua Lotterio.
Della serie, se il personale è coinvolto emotivamente, andrà via meno facilmente.
Formare, per poter delegare (e guadagnare)
«Tra le voci di spesa di Tondo compaiono quelle per l’energia elettrica, per le materie prime, per l’affitto e per spese di diverso genere. Ma a incidere di più sono quelle per la manodopera, per il lavoro fisico (e mentale, aggiungiamo noi, ndr)», precisa Renato Nassini. Manodopera che, in primis, significa attenta formazione del personale. Che è un costo fisso, e che deve restare ragionevolmente un costo fisso. Se poi dovesse far lievitare il prezzo del pane? Ben venga. Perché il fattore umano fa parte del pane (e di qualsiasi prodotto).
«L’artigianalità è un tallone d’Achille. Le persone vanno formate ad hoc. Noi abbiamo deciso di investire molto nel team. Spesso preferendo soggetti provenienti da altri settori. Perché talvolta è meglio partire da una tabula rasa per costruire una professionalità. Specialmente quando si ha a che fare con un prodotto di nicchia come il nostro, dov’è difficile trovare degli esperti», dichiara Elisa Neri, founder di Tuttofabrodo, che conta due insegne a Torino (una nel quartiere San Salvario e l’altra vicino a piazza Vittorio Veneto), concentrate su noodles, ramen, dumpling e xiaolongbao.
«Ho vissuto in Cina e ho voluto portare la cultura asiatica in terra sabauda. Ma a un certo punto mi sono chiesta: Elisa vuoi fermarti a un solo store o vuoi crescere? Ma per farlo ho dovuto formare nuovo personale, imparando a delegare e ad avere fiducia negli altri, a costo di accettarne il limite. Però alla fine la strategia è risultata vincente. Bisogna fare così se ti vuoi allargare, conquistare clienti e guadagnare un po’ di più», spiega madame Neri. Che non a caso si è rivolta a Restworld per le assunzioni.
«Delegare è un passo fondamentale. Per poter affidare ad alcune figure determinate mansioni a basso valore aggiunto e avere più tempo da dedicare ad aspetti ad alto valore aggiunto. Contribuendo in tal modo a un maggiore sviluppo dell’impresa», suggerisce Lotterio.
Colore, prezzo e pezzatura
E poi c’è un’altra questione, che nulla ha a che fare con la discriminazione razziale: perché al pane bianco si preferiscono pani con cereali “diversi”, meglio ancora se di grande formato? Forse perché i panini piccoli e candidi rendono meno in termini di guadagno?
«Noi il pane bianco lo facciamo, ma i clienti sono sempre più curiosi e informati, desiderano le novità e per le novità sono disposti a pagare di più. Inoltre le pezzature più grandi sono decisamente migliori: devono restare più a lungo in forno, sviluppando maggiori aromi e profumi», dichiara Lorenzo Follador, terza generazione di una famiglia che nel 1968 alzò la saracinesca di un forno (Tre Pani nella Guida Pane e Panettieri d’Italia 2024 del Gambero Rosso) a Prata di Pordenone. Dove ora spicca La Bottega (con caffetteria e gastronomia), mentre l’headquarter è stato spostato a Pordenone, dove si trovano pure Lo Spaccio e Il Posto. «Ora contiamo su un laboratorio di 1.600 metri quadrati e lavoriamo circa cinquecento chili di farina al giorno», prosegue Lorenzo.
«Anche noi il pane bianco lo produciamo, però utilizzando semola di grano duro. Per offrire un quid in più in termini di sapore», aggiunge Silvia. Mentre la studentessa Marina fa riflettere: «Quando serviamo il pane bianco i commensali lo scartano, prediligendo altre tipologie». Luca Giannino, G’trainer di Petra Molino Quaglia, pone allora una provocazione: «Visto che deve vincere il gusto, perché non pescare dal passato e tornare a fare pani iconici e storici? Naturalmente realizzandoli con nuove tecniche e con una nuova visione, e facendoli pagare il giusto prezzo». Non solo gli amanti di biove e rosette apprezzerebbero, ma si tornerebbe a dar voce alla memoria e alle culture dei tanti territori italiani. Come sta accadendo in cucina.
Inoltre pane bianco non significa nutrizionalmente e intellettualmente povero. Anzi. Basti pensare a quello realizzato con la farina Petra Evolutiva, che è chiara eppur multietnica, ambasciatrice di un messaggio di agrobiodiversità, di corretta remunerazione e di un coinvolgente progetto di filiera quale “Adotta un Raccolto”. Un concetto circolare sul quale meditare. Per un pane non solo da vendere ma da narrare, facendo pagare quel che merita di essere pagato.
Al ristorante il pane deve uscire allo (s)coperto
E il pane merita di essere pagato al ristorante? Certo che sì. Ma non sotto la voce vetusta e ormai obsoleta di “pane e coperto”. Che senso ha accorpare il pane al tovagliato? «Il pane è un alimento, con una propria dignità», sottolinea la Cancellieri.
E il giovane Durzu – nel cui curriculum non manca una lunga esperienza come responsabile di panificazione alla corte di Niko Romito – rafforza il monito: «A una tavola non può mai mancare il glutine (con buona pace di chi soffre di celiachia, ndr). Noi proponiamo una degustazione suddivisa in atti e il pane è sempre presente, fuori o dentro i piatti. Tre in genere le tipologie che serviamo: un pane alla segale e al farro, una focaccia ai pomodori secchi e una pagnotta con le polveri delle verdure fermentate. Il pane diventa un’esperienza. Che ha i suoi costi e il suo valore. Per questo il rimpiazzo lo facciamo pagare sei euro».
«Forse sarebbe bello introdurre persino una carta del pane. Affinché ciascuno scelga il formato prediletto, senza inutili sprechi», consiglia la moderatrice e giornalista Francesca Romana Mezzadri. Indubbiamente il pane deve trovare un posto d’onore in carta. Sia che sia prodotto dallo chef sia che venga acquistato da un artigiano. Valorizzando l’artigiano. «Noi ad esempio facciamo il pane anche per il mondo horeca, spaziando dal ristorante al chiosco. Serviamo persino l’Harry’s Bar di Venezia», afferma Follador junior. Facendo riferimento alla dinamica linea di Food Service.
Serve altro?
Non di solo pane vive l’uomo. Ma un panificio può vivere di solo pane? Anche qui la domanda è aperta alle più diverse prospettive. «Noi sopravviviamo, producendo un 55 per cento per cento di pane e completando l’offerta con focacce e dolci da forno, coerenti con il nostro credo», confessa Renato Nassini.
«A volte per non sprecare il pane avanzato prepariamo il pangrattato. Che comunque ha un costo, perché ci vuole una persona che svolga questa mansione e si dedichi a questa mansione. Per questo preferiamo organizzarci a monte, cercando di calcolare la produzione ed evitare gli sprechi», ribatte la sodale Silvia.
Oppure? Il pane si potrebbe riciclare in maniera intelligente. «Col pane raffermo facciamo una zuppa, ma anche altre pietanze, da proporre nel bistrot», dice Follador. Indubbiamente diversificare l’offerta e verticalizzate la proposta di un forno permetterebbe di avere meno scarti e maggiori guadagni.
Altre possibili strade? Quella di vendere il pane a ore. Della serie, più il tempo passa, meno il pane costa. Petra, alcuni anni fa, al Mercato Metropolitano di Porta Genova, aveva percorso questa via visionaria. Ma il pane del giorno dopo (o del giorno prima) ha le sue criticità, come fa notare Silvia: «La mattina dovrei vendere sia quello fresco che quello rimasto, a prezzi diversi». Però chissà, potrebbe essere considerata come un’opportunità.
Intanto Tone, a Milano, ha pensato bene di sfruttare al massimo il calore residuo del suo tradizionale forno georgiano, cuocendovi per tutta la notte (a bassa temperatura) il rugbraud islandese, a base di segale e miele. Creando anche una cartolina d’accompagnamento con claim d’insegnamento: «Io sono cotto. A forno spento».