«Sono venuto in America pensando di trovare strade lastricate d’oro, ma una volta arrivato ho scoperto che le strade neppure c’erano e le ho dovute costruire io». Questo pensiero si può leggere in un biglietto spedito a casa, in Italia, esposto al museo dell’immigrazione di Ellis Island dove chi arrivava in cerca di fortuna sostava in quarantena. Un esempio di cosa contenesse il sogno americano nell’Ottocento.
Nella chiacchierata tra i giovani professionisti italiani expat a New York quel biglietto è stato citato da Damiano Coren, oggi beverage consultant del gruppo Sant Ambroeus. Perché, in un certo senso, per chi arriva nella Grande Mela in cerca di futuro nel mondo della ristorazione quel detto può ancora valere. Si può scendere da un aereo con un contratto, con tanto di visto e assicurazione sanitaria, ma si può anche prendere qualche rischio e trasferirsi in cerca di fortuna.
Non è difficile trovare lavoro in un ristorante, ma si inizierà alla plonge: lavare e asciugare i bicchieri. Anche chi in Italia può vantare un curriculum fatto di scuola alberghiera e stage in ristoranti stellati deve sapere che qui ripartirà da zero: «Vengo da una famiglia che possiede un bar, non ero alle prime armi» racconta Roberto Longo, «ma se vuoi che il sogno americano si avveri devi essere pronto a ricominciare da capo. Quando ti presenti a un colloquio conta una sola cosa nel tuo passato: “New York experience”».
Attorno a un tavolo con Damiano Coren si sono ritrovati Roberto Longo, sommelier al ristorante francese Le Coucou, Massimo Menon, sommelier al ristorante Babbo, Alberto Marcolongo, executive chef al ristorante Benoit del gruppo Ducasse, e Massimo Laveglia, fondatore e proprietario della pizzeria L’industrie. Cinque professionisti under 40 ospitati negli spazi di Salotto, hub creativo realizzato da affermati professionisti italiani e incentrato sul design, la grafica, l’arte visuale che in poco più di un anno ha segnato il panorama culturale di New York grazie a una serie di eventi di successo e che abbiamo anche raccontato in uno dei nostri podcast.
«Prima del “sogno americano” parlerei dell’“incubo italiano”» spiega Menon, «quello da cui sono – e penso che il problema non sia solo mio – fuggito. A Venezia, la mia città, venivo pagato quattrocento euro al mese in contanti e poi in ticket restaurant. La frenesia di una città come New York mi pesa, mi manca un’atmosfera più a misura d’uomo, ma pensare di tornare è complicato». Il sommelier di Babbo, però, è l’unico del gruppo a manifestare un po’ di nostalgia, tutti gli altri partecipanti all’incontro non hanno dubbi sul rimanere qui a oltranza, nonostante tutti i problemi che comporta abitare nella città più cara del mondo.
«Se ti piace il lavoro che fai, è una banalità lo riconosco, ti pesa meno» spiega Marcolongo, «gli stipendi sono adeguati al costo della vita, e l’organizzazione del lavoro è migliore, con aspetti su cui in Italia si fa ancora fatica: qualunque sia la tua posizione, se sei dipendente, hai diritto a due giorni di riposo la settimana».
Una volta entrato nel meccanismo capisci come per fare carriera conti solo il merito, questa è la grande qualità del sistema in questa città: se c’è la motivazione, la strada si apre con facilità, il sistema delle mance per esempio è un incentivo: «Gli italiani che vengono in città per turismo trovano la regola della mancia un odioso balzello» spiega Massimo Coren, che oggi, essendo imprenditore, non partecipa più alla divisione delle mance, «ma è un principio che regge il sistema. Insomma, la mancia è una figata».
Poi, siccome la perfezione non esiste, c’è un tema che riguarda la stragrande maggioranza dei ristoranti: la mancia va divisa anche con la cucina o solo tra chi lavora in sala? I nostri ospiti non hanno dubbi: è equo che nella divisione entri anche chi fa di fatto il lavoro più duro. Oggi comunque il minimum wage, il salario minimo, è differente per chi accede alle mance e chi no. Nel primo caso è di poco superiore ai dieci dollari, nel secondo è quindici.
Un ultimo tema affrontato nell’interessante confronto tra i professionisti del settore a New York riguarda la differenza tra essere dipendenti o imprenditori. La prima condizione è indispensabile per intraprendere quella strada, la seconda è un punto di arrivo: «Ho cominciato prendendo cinque dollari l’ora (quello allora era il salario minimo), non avevo nessuna esperienza nel campo della ristorazione» racconta Massimo Laveglia «anche perché ero venuto a New York per fare il calciatore, ma come ho avuto l’occasione, dopo aver studiato la materia, mi sono buttato in un’attività tutta mia. Oggi ho due pizzerie e sono contento di aver evitato di lavorare con gli italiani. Il mio consiglio è: cercate partner americani, sono più affidabili».
Non è un caso infatti che sia Longo che Menon abbiano, o stiano per lanciare, in appoggio al lavoro come dipendenti, un’impresa personale, naturalmente legata al vino. Sicuramente ne parleremo in futuro.
In conclusione si sono trovati tutti d’accordo nel confermare che essere italiano nel mondo della ristorazione è un vantaggio, siamo apprezzati, qualcuno dice “sexy”. Perché se in Italia impari l’arte, qui impari un business: il mix vincente.