Le recenti affermazioni del presidente francese Emmanuel Macron circa la necessità di non dovere «escludere nulla», neanche l’invio di truppe europee nel caso in cui Mosca rompesse le linee del fronte in Ucraina orientale, ha suscitato una forte reazione in Europa, di segno prevalentemente negativo.
È ovvio che un’eventuale decisione dei governi europei di inviare propri soldati in uno scenario come quello attuale in Ucraina sarebbe difficilmente accettato dalle opinioni pubbliche nazionali. È dunque comprensibile la prudenza e il riserbo con cui i leader politici affrontano la questione. Però occorre ammettere che discutere di questo tema, a questo punto della guerra, non è solo una fuga in avanti.
L’Ucraina non chiede l’invio di soldati europei sul proprio territorio; chiede tuttavia con forza, in modo particolare oggi, sostegno militare più massiccio e più costante, per essere in grado di arrestare la sanguinaria e violenta azione di aggressione dei russi, senza dunque coinvolgere le truppe della Nato.
Il dramma è che gli aiuti militari sono sempre stati limitati e condizionati, e dopo ventisei mesi di guerra i sistemi antimissile che potrebbero proteggere le città ucraine proteggono ancora le città europee che non sono bombardate. All’Ucraina continua a mancare non quello che è impossibile fornirle, ma quello che si ritiene opportuno, anche da parte degli alleati, continuare a non fornirle. Anche gli aiuti accordati dai governi e dai parlamenti arrivano sempre con il contagocce, mentre la macchina di guerra di Putin, alimentata e supportata dai suoi alleati, continua a seminare morte senza fermarsi.
Questo rende certamente paradossale una discussione sul possibile impegno militare diretto e non richiesto da parte degli stessi Paesi – pure la Francia è tra questi – che non riescono a garantire neppure l’aiuto militare richiesto e più volte promesso per la fornitura dei mezzi necessari alla resistenza ucraina.
Nel contempo è altrettanto paradossale discutere dell’impegno militare diretto dell’Europa come della causa evitabile di una ulteriore escalation del conflitto e non come della conseguenza inevitabile del collasso del fronte ucraino.
Questa opzione si sta concretizzando nella discussione non per il furore bellicista di Macron e degli europei, ma per il profilarsi di un possibile successo del bellicismo di Mosca. Ma davvero qualcuno pensa seriamente che se i russi si aprissero la strada per conquistare Kyjiv (o anche Odessa o Kharkiv), Europa e Nato potrebbero dire: «Prego, accomodatevi»?
L’appeasement non è mai una buona politica di contenimento, tanto meno nei confronti di un Paese ideologicamente e militarmente imperialista. Dal 2014 fino al 2022 l’Ucraina ha condotto almeno duecento round di negoziati con Mosca e sono stati firmati venti accordi sul cessate il fuoco, ma tutto questo non è servito a fermare Putin, il quale ha sempre rifiutato l’idea di un’Ucraina indipendente e sovrana.
Il 24 febbraio 2022 è anche il frutto dell’illusione di poter negoziare con Putin un accordo pacifico. Ma Putin non aveva alcuna intenzione di negoziare, perché la pace per lui è sinonimo di dominio russo.
Al terzo anno di invasione russa su larga scala continuiamo a sentir dire che Putin dev’essere fermato. Ma lasciarlo avanzare e escludere qualunque opzione militare per contrastarne l’avanzata non sarebbe un modo per fermarlo.