In un’ampia intervista all’Economist, Emmanuel Macron ha ripetuto ancora una volta che l’Europa non deve escludere la possibilità di inviare soldati a combattere al fianco degli ucraini, qualora i russi dovessero sfondare le linee, e invitato l’Ue a uscire dalla sua lunga dipendenza militare dagli Stati Uniti, ponendo le basi per una vera difesa comune, ma anche per una maggiore autonomia economica e industriale, attraverso un salto di qualità nella sua unità e capacità di decisione politica.
Una presa di posizione che rischia di ottenere l’effetto opposto, come segnala lo stesso settimanale britannico, considerando la contrarietà già espressa dal cancelliere tedesco Olaf Scholz all’ipotesi di un intervento diretto nel conflitto, ma anche la debolezza del presidente francese in casa. Di qui i legittimi sospetti di una strumentalizzazione a fini di politica interna, o più banalmente, di una prospettiva troppo condizionata dall’ossessione per la propria eredità politica (nel 2027 Macron terminerà il suo secondo e ultimo mandato).
Si tratta di un problema complesso, come complesso e articolato è il ragionamento consegnato all’Economist, che qui ho dovuto necessariamente ridurre a poche righe, ma che in Italia è già scaduto in farsa, con la dichiarazione di Matteo Salvini: «Mai un soldato italiano a morire nel nome di Macron». Una farsa che non riesce però a prendere il posto della tragedia.
Mentre i nostri talk show continuano infatti a riempirsi di personaggi politicamente, intellettualmente e moralmente modesti, come certi candidati al parlamento europeo che si battono per interrompere le forniture di armi all’Ucraina aggredita, la situazione sul campo offre ogni giorno la migliore smentita alle loro teorie. Anzi, la peggiore: l’avanzata russa consentita proprio dal lungo stop agli aiuti americani imposto dalla destra trumpiana.
Se qualcuno volesse davvero sapere cosa succederebbe nel caso in cui il sostegno occidentale cessasse del tutto, non avrebbe dunque che da allungare lo sguardo e osservare cosa sta succedendo oggi. Ai più distratti, lo ricorda Yaryna Grusha su Linkiesta, citando le testimonianze di due giovani ucraini, un regista e uno scrittore, Oleh Sentsov e Stanislav Aseyev, partiti volontari all’indomani dell’invasione del 24 febbraio 2022, pur avendo già passato quattro anni il primo e due anni il secondo come prigionieri dei russi, l’uno in Crimea e l’altro a Donetsk. O forse proprio per questo: «Sanno bene, lo hanno vissuto sulla loro pelle, chi sono i russi e cosa fanno quando occupano le città ucraine e per questo sono al fronte, per non farlo succedere a Odesa, a Kyjiv e a Lviv, a Zaporizhzhia e Kharkiv».
Aseyev «ha subito sulla propria pelle quello che chiamano il russkiy mir, il mondo o la pace russa». Nel 2014, quando Donetsk fu occupata da Mosca, decise di rimanere in città per fare da testimone, collaborando sotto pseudonimo con varie testate ucraine sul territorio libero. Scoperto nel giugno 2017, è stato rilasciato con lo scambio di prigionieri del dicembre 2019, dopo aver passato ventotto mesi in quello che una volta era un centro di arte moderna e che ora i russi hanno trasformato in un’enorme camera di tortura nel mezzo della città. Un’esperienza che ha raccontato nel libro «The Torture Camp on Paradise Street» (Il campo di tortura in via del Paradiso).
Come scrive Grusha, il libro di Aseyev e il film Venti giorni a Mariupol di Chernov non sono opere di finzione, sono testimonianze dirette dei crimini contro l’umanità commessi dalla Russia, che spiegano a chiunque voglia davvero saperlo cosa succede nei territori ucraini occupati. Interrompere gli aiuti alla resistenza non significa dunque battersi per la pace, ma battersi per lasciare aperte quelle camere di tortura e per lasciarne aprire di nuove ovunque le difese ucraine non riusciranno a fermare l’avanzata degli invasori. Domani nessuno di noi potrà raccontare di non aver saputo quello che accadeva.