Ora che la questione dell’autorizzazione all’Ucraina a usare le armi occidentali per colpire in territorio russo si è risolta, possiamo provare a coglierne le implicazioni e, anche, a capire come mai si sia delineata proprio negli ultimi giorni di maggio. Come avevamo previsto in molti, i russi hanno continuato a premere per tutto maggio su tutte le direttrici offensive, senza ottenere nessun risultato di qualche rilevanza. Semmai, è decisamente più probabile che il consumo di materiale si sia avvicinato al livello di guardia, tanto che ormai l’offensiva sembra sul punto di esaurirsi, o comunque di ridursi all’indispensabile per mantenere l’iniziativa; di fatto, la spinta offensiva russa sembra destinata a ridursi, salvo qualche possibile nuova fiammata.
Va precisato che ciò non indica, almeno per il momento, che gli ucraini possano riprendere stabilmente l’iniziativa, al di là di occasionali movimenti localizzati: saranno necessari ben altri rifornimenti e preparazioni, a partire dalla mobilitazione di nuovi soldati e dal loro addestramento. Comunque, anche le continue epurazioni ai vertici dello Stato maggiore russo indicano una notevole insoddisfazione, ai vertici del regime moscovita, per le prospettive della guerra.
Nel frattempo, durante i lunghi mesi di latitanza degli aiuti americani ma anche dopo il loro sblocco, gli ucraini hanno lanciato una serie di attacchi strategici, molto in profondità e contro obiettivi sensibili anche per gli alleati. I terminali petroliferi servono a tenere sotto controllo i prezzi del carburante e i radar a lunghissima portata a garantire una certa razionalità nella gestione del deterrente nucleare strategico.
Usando tecnologia e componenti di indubbia provenienza occidentale, gli ucraini hanno sviluppato una risposta asimmetrica a doppio senso. Da un lato, infatti, mostrano una straordinaria capacità di economizzare le forze, con grandi risultati (almeno sul piano dimostrativo) e minima spesa. Al contrario dei russi, che negli stessi mesi hanno speso enormi quantità di risorse materiali e umane ottenendo quasi nulla. Dall’altro, hanno giocato sulle divisioni politiche in campo occidentale, mostrando ai titubanti che, se lasciati senza adeguato sostegno, avrebbero continuato a lottare anche colpendo obiettivi poco graditi.
A questo punto, il comando russo, probabilmente per decisione più politica che militare, ha deciso di alimentare la narrazione della sua irresistibile offensiva con un attacco su Kharkiv, anche nella speranza di distogliere i difensori ucraini da altri settori chiave. Questa azione aveva dalla sua un vantaggio essenziale: il fatto che l’artiglieria russa, dal suo lato del confine, non poteva essere colpita con i principali mezzi della controbatteria ucraina (Himars, PzH-2000 e Archer). In una fase nella quale le capacità di reazione ucraina stavano finalmente aumentando, questa scelta è indicativa anche di quanto sia labile il vantaggio russo, che ha dovuto spendere anche la carta dei santuari, ossia delle zone che non possono essere attaccate, con il rischio di bruciarla.
Va notato che una delle armi principali usate per gli attacchi su Kharkiv, e in genere contro gli obiettivi civili ucraini, sono i missili S-300 e simili, nati per l’impiego antiaereo ma impiegabili, con scarsa precisione, contro obiettivi terrestri (nota tecnica: ogni missile antiaereo ha un forte abbassamento della precisione in questo utilizzo, perché il suo radar interno è progettato per tracciare bersagli verso l’alto e sullo sfondo del cielo. Se indirizzato verso il basso, la superficie terrestre e tutto il resto delle strutture manda echi di ritorno, che il radar non è in grado di gestire). Ora, i russi hanno un’enorme quantità di missili, ma le batterie e i lanciatori sono decisamente più preziosi; metterli in condizione di essere colpiti è, pertanto, molto pericoloso.
Solo che questo divieto di uso delle armi Nato sul suolo russo è una roba un po’ pretestuosa, molto ipocrita e per nulla solida, fondata essenzialmente su una linea di controllo dell’escalation assai poco codificata. Infatti, è bastato che Stoltenberg facesse una dichiarazione ovvia perché il veto si sbriciolasse. Anche se per il momento si parla solo di armi a gittata abbastanza limitata (ok GMLRS, no ATACMS per esempio) e su tipologie di bersagli abbastanza ridotte, si è comunque rotta la diga. Semmai, l’inerzia va verso un sempre maggiore ampliamento dell’inviluppo di ingaggio. In prospettiva, in tempi non lunghissimi, significa forse via libera ai Taurus e certamente alla possibilità di colpire i fondamentali nodi logistici di Krasnodar e Rostov, da cui dipende tutto il fronte russo.
Considerazione politica: ormai in Occidente le posizioni premiate sono quelle di chi è disposto a fare di più per l’Ucraina. In questo caso, Svezia, Finlandia, Polonia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti hanno tolto esplicitamente i paletti, una dopo l’altra. Tra i Paesi di una certa rilevanza, resta ormai praticamente solo l’Italia, tanto che verrebbe da pensare che il buon Stoltenberg, politico (di provenienza laburista) tutt’altro che ingenuo, abbia voluto fare una mossa pesante subito prima delle elezioni europee. Si ricorderà, infatti, che nelle scorse settimane la Cdu tedesca, con il segretario Friedrich Merz e ancor più con Ursula von der Leyen, aveva fatto notevoli aperture a Giorgia Meloni. Vederla goffamente costretta a rincorrere quel genio geopolitico di Salvini, mentre si rafforza l’asse franco-tedesco, tra un governo di sinistra a guida socialista e uno liberale, entrambi interessati a chiudere le porte a Ecr in Europa. Insomma, ancora una volta si conferma che l’appoggio all’Ucraina è un prerequisito per essere presi sul serio, in Europa.
Qui è significativo che a muoversi siano stati per primi gli europei, e gli Stati Uniti abbiano seguito. Il passaggio decisivo è avvenuto in un vertice franco-tedesco all’insegna della nuova potenza europea, il che potrebbe essere indicativo del fatto che l’impegno in questo conflitto potrebbe essere mantenuto anche a novembre, dall’altra parte dell’oceano, vincesse il puzzone. Alla faccia di chi diceva che l’Unione europea è suddita degli americani, qui sta nascendo, forse, una nuova sovranità.
Considerazione strategica: un’altra linea rossa di Vladimir Putin zompa per aria, con la stessa grazia della torretta di un T-72. Spinto dal momento favorevole a un’offensiva, ha impresso la massima energia alla macchina da guerra, con il risultato che entro la fine dell’anno, a meno di nuovi rivolgimenti, rischia di avere grosse difficoltà con il materiale, mentre il fondo di emergenza dello Stato si sta prosciugando e i segnali di crisi nelle principali realtà economiche del Paese si moltiplicano. Intanto, sul piano militare, ogni giorno si perdono pezzi importanti: le navi lanciamissili della flotta, la difesa aerea, le navi che riforniscono la Crimea, presto i nodi profondi della logistica a Krasnodar.
Intanto, gli aiuti all’Ucraina si intensificano sempre più e si coordinano sempre meglio. Ne è un esempio l’ultimo pacchetto di aiuti svedese: centinaia di veicoli corazzati e, soprattutto, aerei radar che lavoreranno insieme agli F-16, un altro balzo di capacità. Putin sta facendo la fine della rana bollita, con la temperatura degli aiuti occidentali che, in tutti i passaggi cruciali, sale di quel tanto da rendere impossibile la vittoria russa alle condizioni date e a costringere Mosca ad aumentare il proprio impegno, a livelli sempre meno sostenibili.