Borgata EgnaziaLa mistica della genuinità, lo stile di Meloni e le femministe a corrente alternata

Sui social criticano la presidente del Consiglio per come si è vestita al G7, accusandola di non essere abbastanza alta, magra e a forma di modella. Ma non eravamo belle ognuna a modo suo? O vale solo per chi ci piace?

LaPresse

Considerato che l’ultima volta che ci era toccato parlare d’un G-qualchenumero in Italia era per morti, menati, e altre amenità, direi che l’attuale doppio delirio è un progresso. Ed è un progresso che dobbiamo all’unica vera dittatura di questo secolo: quella della fotogenia.

Perché le città d’arte scoppiano di turisti, perché le spremute vengono servite nei barattoli invece che nei bicchieri, perché una finalista del Pulitzer se la prende coi quartieri silenziosi? Perché la cosa più importante è la fotogenia, e le strade della Brooklyn degli anni Ottanta in “Do the right thing” sono più fotogeniche del cortile interno sul quale ogni persona sana di mente si accerta dia la camera da letto prima di prendere una casa.

Ma andiamo con ordine, cominciamo da Borgo Egnazia. Ho visto le migliori menti della mia generazione indignarsi perché i capi di governo stavano in un resort di lusso e non alla pensione Miramare, terza categoria, senza bagno (cit.), con cui avremmo forse risparmiato ma rimettendoci in fotogenia (e forse anche rischiando l’incidente diplomatico).

Ovviamente l’indignazione finge di non essere per il lusso ma per la fintezza. Quando la Meloni dice che c’erano i panzerotti, editorialisti che a Milano fanno la fila da Luini insorgono: il cliché della Puglia, che schifo, che folklore posticcio. E poi Borgo Egnazia non è neanche una vera masseria, puntesclamativo, è stata costruita successivamente, puntesclamativo.

Il bello è che fanno quest’obiezione fessissima col tono di chi si percepisce ficcante. Ora, io a Borgo Egnazia non ci vado perché non vado in posti non sul mare (non ho abbastanza vita interiore da intrattenermi se non posso fare il bagnetto), ma è tale e quale alle altre masserie, e se non aveste smaniosamente guglato non sareste in grado di distinguerla da quelle antecedenti. Sapete perché? Perché in foto viene uguale, e la fotogenia è tutto quel che conta.

Credo d’aver già raccontato di quella direttrice di newsmagazine che commentava un reportage dall’Africa sospirando «come sono belli questi bambini poveri» (Yasmina Reza non s’è inventata niente), e sono certa che Borgo Egnazia indignerebbe anche Xochitl Gonzalez, che è più bianca di me, ha capelli e occhi più chiari dei miei, ma si percepisce immigrata portoricana anche se sua madre è nata a New York, perché tanto sua madre non c’era mai (questa cosa dell’identità autopercepita ci ha un po’ preso la mano).

Gonzalez ha scritto sull’Atlantic un delirante pezzo su quanto sia borghese il silenzio, e – mentre pensavo che ormai al Pulitzer concorrono solo imbecilli che però abbiano almeno cambiato sesso o provenienza geografica o chissà qual è la prossima frontiera delle transizioni identitarie: forse il segno zodiacale? – io leggendolo mi dicevo che il principio che applica è lo stesso per cui condanniamo fermamente Borgo Egnazia: un imborghesito luogo con addirittura le fognature, mica quei bei posti genuini in cui i nostri bisnonni cagavano in un secchio.

La mistica della genuinità ci ha così preso la mano che l’altro giorno, dentro un bar di Bologna, svolazzavano due piccioni e l’unica che strillava isterica sicura che ci avrebbero attaccato la peste, e si rifiutava di bere il cappuccino su cui avevano battuto le ali planando sul tavolo, l’unica ero io. I turisti sono certa che li trovassero più fotogenici persino della spremuta nei barattoli, i piccioni. D’altra parte quando ero piccola ai bambini nelle piazze italiane mettevano in mano i chicchi di mais per poi fotografarli con addosso i piccioni che venivano a beccare, se ci ripenso mi sembra un miracolo che non siamo tutti morti di peste, limitandoci invece a porre le basi per il secolo in cui tutto il resto pazienza, l’importante è la fotogenia.

Lo sappiamo da quando Barack Obama ha iniziato a venire considerato la grande promessa della sinistra di questo secolo solo grazie a un dettaglio politico: non esiste una sua brutta foto. Neanche di Giorgia Meloni, in realtà (ha troppa mimica facciale per produrre foto non buffe e interessanti, che è persino meglio che donanti). Tuttavia in questi giorni, innescando il secondo fattore di delirio rispetto al G7, la signora ha più che mai funzionato per svelare cosa sia il femminismo posticcio nell’epoca in cui le donne hanno già tutti i diritti che il femminismo vero dei secoli precedenti è riuscito a conquistare loro.

Se puoi votare, lavorare, divorziare, cosa resta da fare al femminismo? Dire che le tue amiche sono fighissime e le tue nemiche delle cesse. Che è esattamente il livello di polemica politica riservato alla Meloni in questi giorni, ma prima di arrivarci devo fare un riassunto di puntata precedente.

Un anno e mezzo fa, scrissi che la Meloni aveva accantonato i favolosi colori e abiti svolazzanti con cui aveva fatto campagna elettorale, i vestiti da persona normale in cui stava così bene, per diventare una che si veste da donna di potere, con tailleur noiosissimi. Quei giganti dell’alfabetizzazione di Libero titolarono così: «Meloni, Guia Soncini agghiacciante: “Non sembra una donna normale”».

Sono molto abituata alle polemiche imbecilli da sinistra, ed è stato con un certo sollievo che ho accorto la conferma che a destra sono scemi uguale: non sanno leggere uguale, vanno bocciati in riassunto uguale, sono alla disperata ricerca di piccole risse pur di non lavorare uguale.

Tuttavia vi prego di credere che, se oggi dico qualcosa sul guardaroba della Meloni al G7, non è perché ci tengo ad avere l’analfabetismo neppure troppo funzionale di Libero nella mia rassegna stampa; è perché ci tengo invece a ragionare su quanto siano femministe istanze quali la body positivity.

In uno dei giorni del G7, la Meloni aveva un tailleur pantalone rosa. La mia parte preferita della polemica su questa decisione guardarobiera è partita da un account che sono certa come del fatto che sono qui ora sia quello, sotto falso nome, d’un famoso direttore di giornale. Quell’account è tra l’altro dimostrazione che la cosa che dicono sempre gli anonimi, cioè che l’internet è un luogo meritocratico dove vale quel che sai dire e non chi sei, è vera, ma significa il contrario di quel che pensano loro.

Gli account sotto falso nome d’un ragioniere di Bitonto o d’un ingegnere di Baranzate funzionano tutti secondo lo stesso schema. Il tapino cerca di farsi notare dicendo delle cose provocatorie, nessuno se lo caga causa saturazione del mercato dei provocatori, crea un secondo, un terzo, un trentesimo account dal quale si risponde nel vanissimo tentativo di far montare la polemica, il mondo continua a non filarselo, e questa frustrazione può durare anni (io temo sempre che uno di questi poi si stanchi di raccontarsi che nessuno gli risponde perché troppo scomodo, e cominci ad accoltellare passanti: in futuro dobbiamo pensare a un welfare per il quale ogni derelitto abbia diritto a una micropopolarità social).

Se invece sei uno che di mestiere comunica, ma giustamente pensi che i social siano da ritardati e sul tuo account al massimo condividi i tuoi articoli, il tuo account falsario sarà efficace, perché non sarà il nome ma le qualità professionali a renderlo tale. Tizia Semproni, o come diavolo chiami la tua incarnazione, twitterà lodi al tuo giornale alternate a prese di posizione abbastanza populiste da raccogliere ampi consensi. Presto avrai parecchi follower e molte interazioni, giacché sei di certo una signora realmente esistente cui però non piacciono i social (poffarbacco, Tizia Semproni su Google non esiste, che signora riservata, Twitter a parte).

Insomma, da Tizia Semproni arriva la critica al tailleur della Meloni, e viene teoricamente da una donna, e quindi le donne corrono a commentare ma sempre spiegando che loro mica sono così volgari da fare «body shaming» (che è il modo in cui chi crede di sapere l’inglese chiama le osservazioni sulla cessaggine di qualcuno).

Loro se la prendono con quant’è poco donante il vestito, mica con la tracagnottaggine di Giorgia Meloni. Epperò, nel farlo, le dicono che per vestirsi così non è abbastanza alta, non è abbastanza magra, non è abbastanza a forma di modella. Le femministe che hanno da dire sullo styling della Meloni mi ricordano la madre di Jennifer Aniston che le diceva di non mettersi l’eyeliner perché aveva gli occhi vicini: lo fanno per il suo bene.

Ma non eravamo belle ognuna a modo suo? Ogni corpo non era, chiedo scusa per l’aggettivo non mio, valido? Certo, purché tu ti vesta in modo da sembrare più alta e più magra. Quand’ero piccola c’era uno spot in cui la sorella minore irrideva la maggiore che non mangiava, «vuole fare la modella». Oggi che sono grande, quello spot verrebbe messo fuori legge dopo il primo passaggio televisivo, però a Giorgia Meloni, non essendo una di noi, possiamo dare del botolo che dovrebbe proprio trovare una stylist che la slanciasse: glielo diciamo in nome della body positivity, diamine.

È che siamo femministe solo con chi ci piace? Solidali solo con chi ci piace? Generose solo con chi ci piace? Certo che sì: siamo umane. Ammetterlo sarebbe già qualcosa. È che pretendiamo fotogenia, prima ancora che politiche condivisibili, da chi sta al governo ma viene valutato come se stesse su Instagram? O è tutto a caso, giacché non sappiamo argomentare ma di qualcosa dobbiamo pur parlare?

A una signora che su Twitter dà della nana alla Meloni, qualcuno fa notare che nella foto profilo è in compagnia di Raffaella Carrà, non esattamente una stangona. La risposta è «Tu Raffaella non la devi nemmeno nominare». È che siamo disposti a trovare bella solo chi vogliamo noi, ma la dialettica da dodicenni, quella ce l’abbiamo con tutti.

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