Serge siamo noiLo spietato talento di Yasmina Reza nel farci fare schifo

La scrittrice francese è la più irresistibile commediografa vivente. Nessuno ha la sua eleganza nel dissimulare quanto ci è superiore. I personaggi del suo ultimo romanzo sembrano usciti dall’Instagram di Elisabetta Franchi

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Meno male che oggi non sono a Milano. Meno male che non sarò al Parenti stasera, quando Marco Missiroli intervista Yasmina Reza. Meno male che, al sempre letale momento in cui ci si fa il segno della croce e si dà al pubblico dignità d’interlocutore consentendogli di fare delle domande, meno male che allora non potrò alzare la mano e dire: signora Reza, excusez-moi, lei guarda mai l’Instagram di Elisabetta Franchi?

Non riesco a pensare a nessuno più lontanissimo di Yasmina Reza – la più scicchissima delle romanziere – da Elisabetta Franchi – la più allegramente tamarra delle stiliste; eppure, quando Serge si mette a urlare contro la figlia che non sa pronunciare Auschwitz, io pensavo quasi solo a Elisabetta Franchi. «Quasi» perché un po’ pensavo anche a una delle mie pochissime conoscenti che non ritenga di spacciare i figli per futuri premi Nobel: pensavo a lei che mi dice sconsolata quant’è capra la figlia che le ha chiesto chi fosse ’sto barocco.

Ma soprattutto pensavo a un’estate di qualche anno fa, alla Franchi che instagrammava una tavolata con piatti che dovevano rappresentare le varie città europee, roba come «Paris Montmartre», e quand’è arrivata a «Berlin Mitte» ha chiesto cosa fosse – lei che non si fa il minimo complesso del proprio non essere esattamente un’intellettuale della Magna Grecia – e nessuno nella sua famiglia nel suo entourage nella sua servitù – che tratta come fossero i figli naturali del professor Higgins e lei la fioraia – nessuno degli intellettuali di casa aveva mai sentito parlare del Mitte, nessuno aveva mai pensato ora che ho fatto i soldi prendo un volo da diciannove euro e novantanove e mi faccio un weekend in una città europea un po’ triste e molto grande, nessuno aveva ritenuto d’informarsi, di emanciparsi, di migliorarsi.

Ci sono tutti, in Serge (esce oggi, lo pubblica Adelphi e se anche non fosse una meraviglia dovreste comprarlo per il punto di blu della copertina); tutti, non solo la figlia della mia conoscente convinta che “barocco” sia il nome d’un trapper.

C’è il nipote che rifiuta il lavoro che gli ha trovato lo zio perché «ho un progetto mio», come gli autori televisivi senza contratto nei bar intorno a piazza Mazzini. C’è Serge, che è tutti noi Thomas Bernhard in sessantaquattresimo, «incapace di rallegrarsi di essere in un posto senza aspirare subito a non esserci più». C’è Joséphine la cui crisi col fidanzato si fonda sulle piccole scemenze che attanagliano la nostra epoca, «se è andato avanti con The Crown senza di me vuol dire che è finita». C’è Serge che gongola perché raccontano una storia in cui fa la figura del pirla, «Gli piace essere l’eroe di una fiaba clownesca. Agli uomini piace essere l’eroe di qualunque cosa, un eroe vale l’altro».

C’è il marito che rimprovera alla moglie ebrea d’essere antisemita. C’è Maurice che dice al consuocero «sua figlia sposa mio figlio solo per i miei soldi», e quello che gli risponde «Per quale altro motivo lo dovrebbe sposare, con la faccia che si ritrova?». C’è la madre di Serge che quando il padre lo corca di botte rimprovera il figlio: «Hai visto come hai ridotto papà».

Ci sono i genitori di una volta, quando i genitori erano adulti e disinteressati alla fluidità di genere. «Adesso ti trucchi! si era costernato mio padre. “Tutte le rockstar si truccano!” “Yves Montand no!”». E c’è l’eterna avversione nei confronti di chi avversa lo spirito del tempo da parte di chi lo asseconda: «Tirano il cane su un carretto, si fanno chiamare mamma e papà! Se hanno voglia di chiamarsi mamma e papà, che problema c’è? Chiamarsi mamma e papà non è più patetico che dare la caccia a tutte le debolezze della gente».

Ci sono, come in tutti i romanzi di una che vuole solo raccontare storie, mica fare della sociologia, grandi verità sociologiche. «Prima quando non si sapeva che cosa uno facesse si diceva import/export, oggi si dice consulenze». «La loro smania di rimpinzarsi d’infelicità». «Chi ha bisogno di una famiglia?».

Ci siamo tutti e facciamo come sempre schifo, perché c’è una ragione se Yasmina Reza è la più irresistibile commediografa vivente, e quella ragione è che nessuno sa farci fare schifo come lei. Nessuno ha la sua eleganza nel dissimulare quanto ci è superiore. Nessuno ha la sua grazia nel fingersi empatica invece che entomologa.

E nessuno sa essere attuale come sa esserlo lei con un romanzo, roba scritta anni fa che sembra scritta la settimana scorsa, la gita turistica ad Auschwitz di Serge e famiglia, le telefonate «divertitevi», la figlia asina che chissà se conosce il barocco, questa finzione narrativa che sembra iperrealismo documentaristico, che sembra la Franchi che dalle Maldive scrive, sotto a una foto appena scesa da un aereo privato, «Non vi nascondo che quello che sta succedendo in Ucraina mi ha fortemente provato».

Meno male che non sono a Milano, sennò non resisterei e chiederei a Yasmina come faccia, e lei sarebbe costretta a rispondermi che certe cose mica s’insegnano, con l’enormità di certi talenti ci nasci, e agli altri resta solo la faticosa emulazione.