Quella per la presidenza della Commissione europea si sta rivelando, come previsto, la partita più schizofrenica dopo le elezioni europee. I nomi dei possibili candidati proposti e sibilati in questi mesi hanno bisogno di farsi strada nel disordine politico e nella logica dei veti e dei contro veti. E benché l’aria si sia fatta pesante dopo il risultato francese e quello tedesco, si tratta di mettere ai numeri una strategia politica che possa garantire un successo al Consiglio europeo e che non venga tradita dal voto segreto dell’Europarlamento.
Lunedì 17 giugno sarà la prima tappa ufficiosa di questa scalata. L’attuale presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha indetto un meeting informale dei leader dei ventisette Stati membri, il primo momento di confronto diretto sulle nomine delle leadership europee. Una scelta che già fa discutere, e che tradisce un’evidente strategia da parte di Michel, di fatto uno dei nomi discussi in questi mesi per la corsa alla presidenza della Commissione.
Secondo un’indiscrezione di Politico, confermata da sette funzionari europei, Michel avrebbe fatto richiesta esplicita di non invitare la presidente uscente, e lead candidate dei Popolari, Ursula von der Leyen all’incontro. Una conferma, oltre che della poca sintonia tra i due, di un tentativo aperto di affossare la ricandidatura della presidente e di giocare un ruolo di prim’ordine nel processo di selezione della prossima leader della Commissione. Che tuttavia non avrebbe trovato alcun supporto dagli ufficiali governativi dei singoli Stati membri, indispettiti da questa prova di forza tentata da Charles Michel. Con un gesto simile il presidente del Consiglio europeo ha mostrato poco savoir-faire, affossando probabilmente qualsiasi velleità di presidenza a palazzo Berlaymont.
Ben diverse sono invece le chance di Ursula von der Leyen. La conferma del Partito popolare europeo (Ppe) come primo eurogruppo dell’Europarlamento le garantisce una solidità strategica più forte di quella che i sondaggi avevano previsto. Ma il crollo dei liberali di Renew e dei Verdi, al paio con l’indebolimento del cancelliere Scholz da un lato e del presidente Macron dall’altro obbligano von der Leyen a blindare una candidatura ben prima del voto al Parlamento europeo. Perché le probabilità di un affossamento al voto in plenaria a Strasburgo il prossimo 16 luglio farebbero slittare i lavori a settembre, oltre a far perdere a von der Leyen l’opportunità di giocarsela da fresca vincitrice delle elezioni.
Tutti gli occhi però sono puntati sul 27 e 28 giugno. Il Consiglio europeo si riunirà in quella data per decidere chi sarà nominato presidente della Commissione. Un voto che garantirà la nomina solo se sostenuto dalla maggioranza qualificata dei leader dei Paesi europei, cioè quindici su ventisette Stati membri. Per von der Leyen fino ad allora si tratterà di lavorare sulle possibili alleanze, soprattutto con i Liberali e con i Verdi, che alcune indiscrezioni confermano stia sentendo da settimane.
A von der Leyen serviranno almeno trecentosessantuno voti per ottenere la nomina (su settecentoventi eurodeputati). Quindi, oltre ai centottantasei dei Popolari del suo partito avrà bisogno di altri eurogruppi. La ricerca andrà spesa tra i seggi dei Liberali, settantanove, dei Socialisti, con centotrentacinque seggi o dei Verdi, scesi a cinquantatré.
Perché benché il Ppe abbia consolidato la propria vittoria, la maggioranza di centro si è assottigliata e non di poco, come racconta a Linkiesta Matteo Villa, analista Ispi e codirettore di Ispi Data Lab: «Guardando la coalizione attuale i numeri sembrano essere ampiamente sufficienti per von der Leyen, ma per la Commissione il voto segreto è sempre compromesso dalla presenza di franchi tiratori. Nella scorsa legislatura la presidente riuscì a passare alla fine con soli nove voti di scarto nonostante avesse una maggioranza più forte di quella attuale, ora ha in mano circa quattrocento seggi ma su settecentoventi. Gli equilibri sono diversi».
A complicare la corsa è anche il risultato uscito dal congresso del Ppe lo scorso marzo, dove von der Leyen è stata nominata spitzenkandidatin ma con un tasso di ribellione attorno al venti per cento, che rispetto alla candidatura potrebbe tradursi in almeno ottanta seggi in meno, che la porterebbero a trecentoventi, ben sotto la soglia di maggioranza necessaria all’Europarlamento. Un déjà vu dell’elezione del 2019, quando von der Leyen riuscì a ottenere il voto dei parlamentari europei probabilmente grazie a forze esterne ai Popolari e alla maggioranza di centro, tra cui il Movimento 5 stelle.
Von der Leyen però non rimane la sola in questa corsa. Tra gli altri nomi usciti in questi mesi c’è anche quello della prima ministra estone Kaja Kallas, che dalle europee tuttavia ha subito un bel colpo vedendo il Partito riformatore fermarsi al 17,9 per cento, terzo in Estonia. Un nome che però se per la presidenza appare al momento debole, potrebbe invece essere interessante per il Consiglio europeo o per il ruolo di commissaria. Un’opportunità da cui la stessa prima ministra non si tirerebbe indietro, ma che considererebbe con attenzione, come ha riferito ad alcuni media locali. Il suo nome è entrato in lizza grazie al supporto dimostrato all’Ucraina in questi due anni di offensiva russa, un impegno apprezzato dagli europeisti ma forse insufficiente a darle una solidità politica necessaria per la presidenza della Commissione.
Anche il nome della presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, è entrato in lizza qualche giorno fa dopo l’assist offerto dal vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani: «Se si fosse candidata al Congresso come presidente della Commissione l’avrei votata certamente. È un nome eccellente che può svolgere qualsiasi incarico», ha dichiarato a Quotidiano nazionale. Un endorsement che a pochi giorni dal voto sembra più strategico che sincero, e legittima il sospetto che Tajani stia forse cercando di liberare il posto da presidente del Parlamento europeo a un altro italiano.
In lizza nei mesi scorsi era stato fatto anche il nome dell’attuale commissario europeo al Mercato interno e i Servizi, Thierry Breton, che nei decenni di carriera politica e imprenditoriale ha consolidato un ottimo apprezzamento tra i leader europei. La sua candidatura però necessiterebbe del sostegno dell’inquilino dell’Eliseo, al momento impegnato a gestire un terremoto politico e una nuova campagna elettorale in vista delle elezioni legislative del 30 giugno.
Su Macron grava una grossa responsabilità in questo scenario post elezioni. Quella che doveva essere una corsa per proporre l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi si sta lentamente trasformando in qualcosa di diverso per il presidente francese. La trascinante vittoria del Rassemblement national cambia necessariamente le carte in tavola per Macron, ma non esclude che il presidente possa decidere di scommettere comunque su questo nome cercando di stupire e provare a dimostrare ancora il suo potere d’influenza in Europa nonostante i risultati francesi. Quello che è sicuro è che Macron indebolito può essere un’opportunità per von der Leyen: «L’insicurezza di Scholz e Macron potrebbe dare forza alla presidente uscente, in quanto unico “punto fermo” in grado di dialogare con lo spettro più ampio di forze – spiega a Linkiesta Salvatore Borghese, analista e cofondatore di YouTrend –, ma potrebbe anche danneggiarla, se sentissero che porre un veto su di lei potrebbe essere utile per far loro riguadagnare consensi, potere negoziale o spazio di manovra».
Per ora l’ambizione del presidente francese sembra il consolidamento della maggioranza europeista a Bruxelles, e un sostegno a von der Leyen pare essere il più plausibile. Ma nelle strategie messe in campo al momento rimane ancora una grossa incognita, Giorgia Meloni. «Von der Leyen ha con Meloni già una relazione privilegiata – spiega Villa dell’Ispi –, e sa di poter contare su di lei su alcuni temi, Meloni dal canto suo ha bisogno di raccontarsi come più moderata». Il rapporto tra le due si è consolidato soprattutto negli ultimi sei mesi, tanto da creare non pochi fastidi in Europa, soprattutto tra i Socialisti e i Verdi. Ma visto il tracollo degli ultimi, e la tenuta dei primi, ora sotto la guida del Partito democratico italiano, si aprono i giochi su una possibile candidatura sostenuta a tre teste. «Il cambio di vocabolario fatto da von der Leyen nell’ultimo periodo potrebbe rivelarsi un azzardo per una nomina che fino a nove mesi fa sembrava essere sicura», spiega a Linkiesta Dino Amenduni, professore di comunicazione politica ed elettorale dell’Università di Bari, che continua: «È una candidatura ora molto più in pericolo perché su temi come il Green new deal secondo molti ha concesso troppo a destra. Oggi diventa complicato per il Partito socialista votare Ursula von der Leyen come se nulla fosse successo in questi ultimi mesi».
Ora la presidente uscente si trova a dover fare i conti su molte decisioni in materia di politica migratoria e ambientale. E non può che dividere la responsabilità di queste scelte con un altro volto noto della politica europea, suo amico e nemico, il presidente del Partito popolare europeo, Manfred Weber. Su di lui nel 2019 qualcuno aveva scommesso per la presidenza della Commissione, ma di fatti a nessuno sembrò essere un’idea particolarmente allettante nonostante Weber stesso si fosse dimostrato disponibile all’idea. Dopo quell’occasione i rapporti con von der Leyen non sembrano essere mai stati eccellenti, ma su questa ricandidatura pare che Weber stia insistendo senza esitazioni, blindando von der Leyen anche da possibili fastidi interni ai Popolari.
La composizione attuale del Parlamento europeo e il peso politico di Scholz e Macron lasciano ancora aperte possibilità di alleanze improbabili, ma non impossibili. L’eventualità di una candidatura sostenuta da un partito della famiglia di Ecr, come Fratelli d’Italia, non è da escludere. «Benché questo non andrebbe a modificare di molto i numeri – spiega Borghese di YouTrend – potrebbe aprire a una nuova scomposizione tra Ecr e Id, per dar vita a un “super gruppo” di destra che isoli gli elementi più “problematici” così da conquistarsi un nuovo margine di manovra».