Quando avevo diciott’anni, e pensavo che il mio lavoro adulto sarebbe stato il teatro, e lo pensavo da, boh, quando alle medie andavo a vedere gli spettacoli di Gassman, o da quando pagavo cifre oggi impensabili una copia in francese del “Kean” fatta arrivare apposta per me dalla libreria di provincia, insomma una volta, diciottenne, al festival dei Due Mondi, mi scopai un tizio per una ragione che a voi sembrerà fessa (perché non capite le diciottenni, nonostante crediate d’essere amici delle vostre figlie), ma mica è la più fessa che abbia in repertorio.
Il tizio, di cui non mi ricordo il nome, era l’ex fidanzato di quella che negli anni del liceo era stata la mia insegnante di recitazione (una evidentemente vocata ai casi disperati: non avete idea di quanto io fossi cagna). E lei, che aveva l’abitudine che si sarebbe poi consolidata in questo secolo, quella di confidarsi con le ragazzine come fossero adulte, mi aveva a un certo punto raccontato un numero sufficiente di sue storie d’amore da averci incluso pure quella con Paolo Rossi (l’attore, no il calciatore: questa precisazione all’epoca si portava molto).
Io allora Paolo Rossi l’avevo visto solo a teatro, mi pare, direi che la tv abbia cominciato a farla dopo, ma aveva quella qualità che aveva da giovane Benigni e che ha da vecchio Dave Chappelle: usciva sul palco, e c’era aria di pericolo. Aveva la presenza di uno che può fare qualunque cosa, di uno che quand’è in scena non sai mai cosa diavolo possa succedere. Forse era quello. Fatto sta che, pur di stare a due gradi di separazione dalle sue mutande, la giovane me si portò a letto un tizio che vatti a ricordare come si chiamasse.
Non vorrei che a questo punto non aveste ancora capito che questo è un articolo sulle elezioni. È un articolo su venerdì scorso, quando senza una ragione, camminando per strada, mi sono messa a canticchiare «sono un mediano di nome Abdul, ero riserva giù nel Kabul», che se guardavate la tele trenta e fischia anni fa, quando l’analfabetismo locale non aveva ancora cominciato a chiamare i monologhi «standup», e Paolo Rossi era il più formidabile monologhista mai apparso nei nostri tinelli, se la guardavate state già canticchiando, e sennò mi dispiace per voi che non sapete che è un’insuperata analisi delle dinamiche dell’immigrazione.
È un articolo su sabato scorso, quando su Repubblica è apparsa un’intervista a Paolo Rossi, fatta da uno dei più bravi, Concetto Vecchio. Un’intervista in cui uno dei consumi culturali più importanti della mia formazione diceva che si candida. Diceva anche che non era la prima volta, ma non si ricordava l’anno e il partito della candidatura precedente, «C’era pure Paolo Villaggio in lista». Vecchio ne desume che fosse la lista di Democrazia proletaria (oddio, che madeleine) del 1987. Rossi dice che comunque non si votò, lui.
Ora, io venerdì pomeriggio, canticchiando del mediano di nome Abdul che nella giungla profonda e nera tira nel culo della pantera (ora arrivano quelli che ci spiegano che a Kabul non c’è la giungla: non avete mica poesia, voialtri fact-checker delle rime), venerdì pomeriggio ero entrata all’ufficio elettorale. Ero al telefono con un’amica, e quindi ero entrata annunciando volontariamente a lei e involontariamente agli astanti «Sto andando a prendere la tessera per votare Giorgia».
In serata, il direttore di questo giornale aveva cercato di convincermi che si votasse di lunedì, come si fa nelle famiglie in cui c’è uno zio un po’ rincoglionito che vuole votare qualcosa d’impresentabile e allora gli si dice ma certo che il seggio è aperto domani, ti accompagno io con calma. Ma io gheparda sapevo tutto, ero equipaggiata della tessera e pronta a votare Giorgia.
Poi però, mezza giornata più tardi, vedo che c’è Paolo Rossi, quello che più di trent’anni fa aveva già capito i problemi delle città: «Prima lavaggio strade, poi ritiro spazzatura». Certo, gli ha chiesto di candidarsi Vauro, che non ho capito perché passi per un rispettabile intellettuale di sinistra, quando la sua ispirazione principale è chiaramente Forattini, che ero rimasta fosse un orrido qualunquista.
Ma, soprattutto, è candidato nella lista di Michele Santoro, il che mi fa tornare subito in mente le uniche elezioni europee di cui io mi sia mai interessata. Era vent’anni fa. Andai a seguire una giornata di campagna elettorale di Massimo D’Alema. Ricopio un rapido scambio del pomeriggio: «Come glielo spiega, a Santoro che le fece la trasmissione dal ponte di Belgrado e che ora è un vostro candidato?» «Io? Io non gli devo spiegare niente. Sarà lui che deve spiegare perché si è candidato con me».
La giornata si chiuse a Napoli, con una serata in teatro. Oltre a D’Alema c’era appunto Santoro. Di solito, quando racconto di quella serata, lo faccio per due motivi. Uno è che mi raccontarono una cosa che D’Alema aveva detto non in mia presenza, e che quindi non scrissi, ma che ancora mi ricordo. C’erano in quel momento tre ostaggi italiani in Iraq, e mi dissero che D’Alema aveva detto «verranno liberati tre giorni prima delle elezioni, e noi non potremo dire niente, perché quello è un genio». «Quello» era Berlusconi. Quella di D’Alema era di certo una malignità. Gli ostaggi vennero liberati l’8 giugno. Le elezioni erano il 12.
L’altro e meno rilevante motivo è che, nel mio articolo su quella giornata di campagna elettorale, c’era scritto che Santoro aveva una giacca che gli tirava sulla pancia. Credo che Santoro avesse equivocato una critica sartoriale per una ponderale, fatto sta che, qualche giorno dopo, diede un’intervista a Stefano Cappellini in cui disse, cito a memoria, «a Napoli ho visto la Soncini, quella che scrive che non sono bello: ma si è vista?».
Quindi sono esattamente vent’anni che per me Santoro è quello che mi ha detto «cessa», o «specchio riflesso», o qualcosa del genere. Ma è secondario, perché all’epoca avevo trenta e più anni, e non ero più carta assorbente, non quanto lo ero a sedici, quando Michele Santoro apriva ogni giovedì sera dicendo «Comunque la pensiate, benvenuti a Samarcanda», che era una balla ma molto ben detta.
E quindi, vedo strabuzzare gli occhi i lettori di questo illuminato giornale, vuoi votare l’impresentabile lista di Santoro? Santoro lo voterete voi, io semmai voto per la mia adolescenza, voto per quella meraviglia dimenticata che è “Il laureato”, voto per il papà ubriaco che dice al bambino «cazzo vuoi?» (di nuovo: se c’eravate lo sapete, sennò mi spiace per voi), voto per uno che m’ha insegnato a ridere (vi pare poco), voto per «Dici com’è triste Venezia? Non hai mai visto Monfalcone», voto per un lessico famigliare da cui non è mai più uscito «Lei dice vengo, lui dice vengo: ma dove vanno, e soprattutto da dove vengono?».
Insomma voterei per un sacchetto di madeleine; se solo sapessi in questi otto giorni che fine ha fatto la mia nuova tessera elettorale, se solo a quest’ora non stessi andando in campagna e mica lo so se torno in tempo.
Se solo, devo dirvi, non mi sembrerebbe (ora arrivano quelli che «se» regge il congiuntivo), in caso di realizzazione dei vari «se solo», ecco, non mi sembrerebbe poi la peggiore, di tutte le ragioni fesse per darlo (il voto), quella che qualcuno che neppure conosci è stato importante per te negli anni in cui la gente importante per te lo è assai di più di quanto lo sarà mai chiunque, parlamentari compresi, per un’adulta.