L’ultima volta che ho votato era il 2018. Lo so non perché abbia smesso d’identificarmi nell’allieva somara di quello sketch del Saturday Night Live, quello in cui Jerry Seinfeld faceva il prof di storia che tenta disperatamente di far dire agli alunni chi fossero i nemici dell’Inghilterra negli anni Quaranta, e la me al primo banco ripete querula: prof, aveva detto che le date non le chiedeva.
Lo so perché su Google il 2018 è il risultato che mi esce se cerco “elezioni 4 marzo”, e io so che era il 4 marzo perché il 4 marzo è una delle due date che anche i più somari tra gli italiani ricordano (l’altra è il 5 maggio); lo so perché sulla scheda elettorale, invece di mettere la mia brava crocetta, scrissi «Lucio Dalla vive».
Di questo episodio, sei anni dopo, mi colpiscono due cose. Una è il mio fare al seggio elettorale una cosa che di solito si fa solo sull’internet, e nella realtà si hanno abbastanza lobi frontali, superio, senso del ridicolo per evitare: sentirsi spiritosissimi nel rompere i coglioni, risultando a osservatori non altrettanto imbecilli solo un caso umano. La foto della scheda con «Lucio Dalla vive» sarebbe stata un ottimo meme, per fortuna fotografare la scheda era illegale e ce lo siamo risparmiato.
L’altro dettaglio a colpirmi è che la ragione per cui invalidai la scheda del Senato non è che questa destra, francamente, non si può (cit.); non è neanche che avessi un qualche tema che mi stava a cuore e che veniva trascurato da tutte le liste candidate (ero già troppo vecchia perché mi stessero a cuore i temi o le persone: al massimo per età avrei potuto prendere un gatto); la ragione per cui invalidai la scheda è che, nel mio collegio, il candidato al Senato era Tommaso Cerno.
Anche questo secondo elemento ci riconduce a quella parte di non vita che è il tempo che passiamo sull’internet. All’epoca Cerno mi sembrava sufficientemente impotabile da annullare la scheda; adesso, soli sei anni dopo, quando mi passa davanti qualche sua frase penso che abbia spesso ragione e quasi sempre sia piuttosto spiritoso. È una cosa che sull’internet succede implacabilmente, sebbene di solito la parabola sia inversa: ci si telefona e si dice «ma ti ricordi quando all’inizio leggevamo Tizio sui social e ci pareva intelligente, ma eravamo sceme noi o è peggiorato lui?».
Nei giorni scorsi Facebook – i cui anniversari sono l’unico argine al mio aver smesso di ricordarmi tutto ciò che sia accaduto meno di vent’anni fa – mi ha mostrato alcuni post del 2011. A Milano si votava per il sindaco, io non volevo incomodarmi per andare a votare, e molti amici si scaldavano moltissimo, non vorrai farci perdere per un voto, il rischio fascismo, l’emergenza democratica, il sarcazzo di argine alla sarcazzo di dittatura.
Il candidato era Pisapia, e alla fine m’incomodai a votarlo, ma senza Google proprio non mi ricordo contro quale temibile rischio di dittatura fosse candidato: sospetto fosse Letizia Moratti – che nel frattempo, con quella che definiremo parabola cerniana, è diventata punto di riferimento fortissimo del riformismo.
A questo punto i bagarini stimano improbabile ch’io riesca a fare di questo articolo ciò che volevo fosse quando ho cominciato a scriverlo, un articolo sulla non buonissima idea di rimuovere un candidato alle elezioni a mezzo sentenze penali. Che non sia un’ottima idea ce l’hanno dimostrato le conseguenze dei primi anni Novanta, quelli in cui gli americani guardavano Jerry Seinfeld prof di storia e noialtri inventavamo il format del governo a mezzo tribunali; ma ormai queste righe sono evidentemente a tema «Sorcioni capisce le cose solo col senno di poi».
Epperò la storia, quella che andrebbe scritta con la maiuscola ma io ho in antipatia le maiuscole, è fatta solo di senno di poi, il che rende ubriaco il piccarsi di stare dalla parte giusta della maiuscola, che si sia ayatollah o idraulici o studenti universitari. Poiché la stolidità è equamente distribuita, quelli che obiettano è sempre perché pensano che la parte giusta sia invece la loro; mica perché si rendono conto che la parte giusta si saprà quando tu sarai stramorto, e la cronaca sarà appunto diventata storia, e capotavola sarà dov’erano seduti i vincitori.
Guardavo “Unfrosted”, il film sulle merendine che ha voluto girare Jerry Seinfeld (è su Netflix), e sul quale non avrei scommesso due lire e invece è delizioso, e a un certo punto Hugh Grant – nella parte dell’attore shakespeariano che per svoltare la mesata indossa il costume da Tony la tigre, la mascotte dei cereali glassati – guida la ribellione alle vessazioni subite dalla Kellogg’s.
Le mascotte sfondano l’ingresso, si arrampicano sull’edificio, e – in una scena che già di suo ricorderebbe l’assalto a Capitol Hill – per colmo di didascalismo Grant ha solo mezzo costume da tigre, è a petto nudo, e sulla testa indossa delle corna. Per stracolmo di stradidascalismo, un altro personaggio gli dice che hanno fatto tardi perché lui ha insistito a fermarsi a comprare le corna da vichingo (Jerry Seinfeld è popolare da troppi secoli per non sapere che non bisogna mai sopravvalutare la capacità del pubblico di cogliere un riferimento senza che gli vengano accesi i lampeggianti).
Guardavo e mi chiedevo: ma quindi Trump è già abbastanza storia da essere in un film di finzione ambientato negli anni Sessanta? (Film nel quale c’è uno strepitoso Bill Burr che fa un John Kennedy che parla solo di figa, il che mi ha fatto pensare oddio, ma quindi la sinistra è infine pronta a uccidere i propri santini, sta diventando proprio una bambina grande).
Poi però mi spuntano da ovunque mestieranti di Hollywood che – nella cronaca, mica in un film di finzione – fanno l’appello «questa destra, francamente, non si può» (sempre la stessa cit.). Robert De Niro che legge il discorsetto sulla fine della democrazia in caso di vittoria di quell’arnese, Aaron Sorkin che in un podcast dice che voterebbe chiunque purché non fosse Trump, e com’è possibile che le migliori menti dell’intrattenimento non abbiano ancora capito che quella propaganda lì non funziona.
In questi giorni mi balocco molto con l’idea di attraversare la città e andare nel Beaubourg dei poverissimi in cui il comune di Bologna ha messo l’ufficio elettorale, a ritirare quella tessera che l’efficientissima amministrazione locale non mi ha mai recapitato. Quando lo dico a qualcuno, quando dico vado a ritirarla così voto Giorgia, quel qualcuno inevitabilmente sgrana gli occhi e dice qualcosa nell’ordine di: non dirlo neanche per scherzo.
Io ogni volta penso a Romano Prodi, a Giuseppe Conte, e a quel mio amico americano. Per anni ho detto che l’unico governo ad aver fatto qualcosa per me era il secondo governo Prodi, che aveva abbattuto l’aliquota sui diritti d’autore per chi aveva meno di 35 anni. Io all’epoca ne avevo 34, ma meglio un anno di tasse ridotte che niente.
Poi è arrivata la pandemia, il crollo delle inserzioni degli stilisti (cosa fai pubblicità ai vestiti da sera sui giornali patinati, se le lettrici sono chiuse in casa in tuta), e quello conseguente dei fatturati di noialtre opinioniste frivole. Il governo Conte mi diede dei soldi, lui a me. Neanche ricordo quanti fossero, ma ricordo la sensazione di straniamento di venire bonificata dallo Stato.
Il mio amico americano non sa chi siano Prodi o Conte (non conosce neppure il cantante, tapino), ma tempo fa mi ha detto che l’unica volta che un governo ha fatto qualcosa per lui è stato quando Biden ha revocato i debiti universitari. «E tuttavia io Biden non lo voto manco morto».
Quindi si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione è un film di seconda visione, è l’urlo di sempre che dice pian piano «non siamo, non siamo, non siamo»: le elezioni non si vincono per meriti effettivi, non per parti giuste della storia, non per le celebrità in cronaca, e certamente non perché noialtri pagati per spiegarvi il mondo abbiamo deciso che l’avversario, signora mia, è il male-con-la-maiuscola.
Però quel Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova, non è ancora riuscito a farmi capire per cosa, invece, si vincano. Oltre che «perché si è più capaci di diventare meme», che è una ragione che mi rifiuto d’accettare.