Il costo del bicchiere Il valore dietro al bancone

Investire nella formazione dei giovani bartender vale più di una bottigliera di pregio? E alimentare la loro passione per questo lavoro ha un prezzo?

©LorenzoCevaValla

Cosa significa “bere bene”? E soprattutto, quanto costa? Ci siamo seduti a un tavolo (uno dei venti attorno ai quali si è sviluppato il dibattito durante l’ultimo Festival di Gastronomika del 19 e 20 maggio 2024) e ne abbiamo parlato con esperti del settore, traendo spunto dal monito «Mi costi una fortuna» per condurre una riflessione senza retorica sulle reali e attuali dinamiche economiche che governano il mondo della mixology (e della ristorazione in generale), influenzando anche l’approccio psicoemotivo dei professionisti (o aspiranti tali) che si muovono attorno al bancone e dei clienti che a esso si accostano per vivere un’esperienza “di valore”. A prescindere dai prezzi indicati nella drink list.

Non tutto è monetizzabile. Al bar si vende (e si acquista) un’atmosfera
Tutto parte dalla domanda: «Quali sono le caratteristiche che un bartender deve avere per fare bene il proprio lavoro?». Attenzione: non si parla solo di conoscenze, competenze o abilità frutto dell’apprendimento o dell’esperienza, bensì di competenze in senso generico e onnicomprensivo, che includono anche le doti e le inclinazione innate, spesso alla base dell’attrazione dei giovani nei confronti di questo particolare mestiere, ma anche responsabili del valore che il cliente attribuisce all’esperienza vissuta al di là del bancone.

  1. Sul primo gradino del podio l’empatia, intesa come capacità di stabilire un’istintiva connessione con l’ospite (habitué o occasionale), di cogliere immediatamente la predisposizione d’animo di chi entra nel cocktail bar e di individuarne e soddisfarne le aspettative (anche inconsce) in termini di gusto ed esperienza da vivere.
  2. Al secondo posto il team working, la capacità di agire con logica e operare come parte di un meccanismo che si muove attorno al drink e che può funzionare al meglio solo concertando un mix di competenze emotive e pratiche che permettono di lavorare con maggiore efficienza e soddisfazione, di gestire meglio gli imprevisti e di ridurre gli sprechi (di materie prime e non solo).
  3. Non meno irrilevante la conoscenza dei prodotti, che nasce dalla curiosità verso gli ingredienti, dallo studio e dalla propensione a sperimentare, per trovare sempre nuovi equilibri, proporre sempre qualcosa di originale e saperlo raccontare affinché venga apprezzato al meglio anche dal cliente inesperto.
  4. Infine c’è l’esperienza, cioè la consapevolezza acquisita nel tempo con il lavoro sul campo, che prescinde dalla conoscenza delle ricette di base della miscelazione e dalla capacità di preparare buoni cocktail, delineandosi piuttosto nella costruzione di una propria unicità, di uno stile che contribuisca a definire l’identità del locale, che permetta di distinguersi dalla concorrenza e che invogli il cliente a tornare.
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Qual’è il prezzo della passione?
Non si diventa dei bravi bartender (né dei bravi chef, né dei bravi insegnanti, né dei bravi medici) se non c’è la passione. Un sentimento che può nascere in maniera anche inaspettata, come frutto di un’esperienza estemporanea, come effetto collaterale (e paradossale!) di un “lavoretto estivo” imposto come punizione per un insuccesso scolastico o come esito del tentativo di reinventarsi dopo una vita trascorsa a fare “altro”.

Sulla passione si innestano poi lo studio e l’esperienza, che sono le variabili necessarie a distinguere un hobby improvvisato da una professione vera e propria. E se la passione (almeno all’inizio) è gratis, approfondirla e indirizzarla ha un costo non indifferente e richiede un investimento (di denaro e tempo) che un titolare difficilmente è disposto a sostenere per i propri dipendenti.

Va da sé che solo chi può permetterselo riesce a intraprendere un percorso professionalizzante ufficiale e strutturato, mentre gli altri sono costretti ad “arrangiarsi sul campo”, in un settore dove tuttavia oggi improvvisarsi non basta più per fare la differenza.

Se c’è chi rinuncia a priori, anche chi persevera con determinazione nel percorso di crescita che lo porterà dietro il bancone è costretto a scontrarsi con il disincentivo di un work-life balance che (soprattutto dopo la pandemia e l’affermazione dello smart working in altri settori) viene percepito dai giovani della Generazione Z come sbilanciato e iniquo: lunghi turni di lavoro, con pochi giorni di riposo (di solito uno) e uno stipendio che va dai 1.300-1.500 euro per un bartender junior ai 1.800-3.000 euro per un bar manager professionista (secondo la media nazionale). Il risultato è un meccanismo vizioso in cui il personale, insoddisfatto perché costretto a “svendere” la propria bravura, perde entusiasmo, è meno propenso a impegnarsi per migliorare e meno partecipe alla creazione di valore per il locale. E il cliente se ne accorge.

Il costo delle (nuove) buone idee
In Italia, da Nord a Sud, il prezzo dei drink va da otto a trenta euro a seconda del tipo di locale e della posizione geografica, con una media nazionale stimata attorno ai quattordici euro. In questa cifra ricadono una serie di spese che il cocktail bar deve sostenere, tra cui quelle per il mantenimento della location, per l’acquisto delle attrezzature e della materia prima. Il costo del personale rappresenta solo il 35 per cento delle uscite totali, collocandosi dopo altre voci di spesa e non includendo alcun “fondo” da investire in formazione del personale o innovazione dell’offerta.

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Questa mancanza di strategia volta al cambiamento (sia pure in senso migliorativo) è frutto innanzitutto del rifiuto dell’innovazione determinata dal timore nei confronti di ciò che non si conosce, ma soprattutto dal rispetto reverenziale verso una tradizione che in Italia è molto più forte che all’estero e che si ha paura di snaturare con qualcosa di “troppo spinto”, “troppo minimal”, “troppo dissacrante”. Laddove invece l’innovazione dovrebbe essere intesa come la ripresa rispettosa di ricette, sapori e gesti riconosciuti a livello internazionale, con l’impegno a valorizzarli attraverso nuove tecniche, nuove presentazioni, nuove consapevolezze nutrizionali e organolettiche. Per rendere più accattivanti e attuali i classici, senza sostituirli.

La “cresta” sulla spesa
Inoltre sembra mancare del tutto la consapevolezza del nuovo status sociale del cocktail e del bartender, che può giustificare e legittimare (anche agli occhi del cliente) il maggior costo della “drink-experience” e quindi ammortizzare maggiori investimenti in formazione del personale.

Negli ultimi anni ci sono stati infatti due fenomeni che hanno rivoluzionato il mondo della mixology (di pari passo con quello della ristorazione): la crescente rispettabilità della figura dietro il bancone (che da “barista” si è trasformato in “bartender”, conquistando un prestigio simile a quello del “cuoco” divenuto “chef”) e la sostituzione del “momento cocktail” ad altri rituali di convivialità come il caffè o la birra in compagnia.

Ormai è la norma bere un Gin Tonic come aperitivo invece del classico Spritz o come dopocena al posto dell’amaro digestivo, e proprio in virtù di questa nuova funzione conviviale, il pubblico è attualmente disposto a spendere cifre che fino a qualche anno fa sarebbero state improponibili per un drink mainstream.

Ma non solo: la maggior parte dei clienti è interessata ad acquistare una situazione più di quanto non sia attenta all’eccellenza di ciò che ha nel bicchiere, ed è molto più propensa a uscire di casa per “bere qualcosa” che non sarebbe in grado di prepararsi da sé, piuttosto che per andare a mangiare in un posto esclusivo (laddove potrebbe ripiegare su una soluzione domestica più economica).

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Esserne consapevole permetterebbe al bar manager di servire cocktail basati su materie prime buone ma non di lusso, in modo da conservare un margine da reinvestire nella crescita delle risorse umane e in tutte quelle voci di spesa che non sono scritte nella lista degli ingredienti in carta. Il tutto senza compromettere l’esperienza del cliente.

Nuove consapevolezze e prospettive future
A oggi un buon espediente per fare formazione senza incidere troppo sui costi di gestione del locale può essere quello di approfittare delle guest di barman famosi provenienti da altri locali per organizzare delle masterclass rivolte agli operatori del settore, che in queste occasioni possono approfondire le loro conoscenze su singoli ingredienti, tecniche o utilizzi di particolari attrezzature. Il tutto anche attingendo al mondo della ristorazione con cui la mixology vive in sempre più stretta connessione, condividendo le stesse dinamiche e difficoltà, in termini di reperimento di personale e assenza di un ente strutturato che tuteli gli interessi di categoria.

La ragione è che la ristorazione in generale è stata a lungo intesa come prosecuzione della dimensione domestica in un’attività a gestione familiare; una condizione che non rendeva necessaria la creazione di un apparato normativo che la disciplinasse. Oggi è necessario un adeguamento delle leggi e un investimento strutturale e sostanziale da parte delle istituzioni che non escluda la possibilità di creare sindacati o enti a tutela dei cuochi e dei bartender (laddove oggi esistono solo iniziative associative private).

In questo modo si potrebbe incentivare l’ingresso e la permanenza nel settore ho.re.ca. di giovani appassionati che se ne tengono alla larga o che vi rinunciano dopo una breve carriera e si stimolerebbero i titolari dei cocktail bar a investire nella formazione dei propri dipendenti. Nella consapevolezza che la qualità del servizio è parte fondamentale della creazione di quel valore che il cliente attribuisce al momento trascorso al bar.

Ma non solo: ormai è evidente che il livello della proposta del locale è funzionale a selezionare il tipo di clientela, a seconda del segmento di pubblico che intende intercettare; pertanto il manager che vuole distinguersi dalla media deve puntare in alto, non solo attraverso la selezione della materia prima ma anche attraverso tutti quegli elementi di contorno che alimentano la percezione della qualità e la predisposizione a trattenersi più a lungo, a ordinare un drink in più, a tornare più volte e, in generale, a spendere. Quando si dice: la qualità paga!

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