Il primo tempo della partita (il voto nel Consiglio europeo di ieri notte) non si è concluso nel migliore dei modi per l’Italia: Giorgia Meloni ha votato contro le nomine di Antonio Costa alla presidenza del Consiglio europeo e di Kaja Callas come Alto rappresentante per la politica estera, mentre si è astenuta sulla riconferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Cioè i tre nomi su cui si erano accordati popolari, socialisti e liberali, sin dal vertice informale del 17 giugno, che il Consiglio europeo ha quindi approvato a larghissima maggioranza. Vedremo se il secondo tempo della partita (il voto del Parlamento di Strasburgo) consentirà alla nostra presidente del Consiglio di rientrare in gioco in qualche modo.
Quel che è certo è che finora non ci è andata neanche vicino, a dispetto della retorica sulla rinnovata centralità dell’Italia. Tagliata fuori da tutte le trattative, Meloni ha definito la proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i cosiddetti top jobs «sbagliata nel metodo e nel merito», spiegando di avere deciso di non sostenerla «per rispetto dei cittadini e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni». E questa, a mio parere, è la parte più interessante delle sue dichiarazioni.
Anche qui, infatti, Meloni sembra essere rimasta vittima della sua stessa propaganda su una clamorosa vittoria della destra sovranista che in Europa, numeri alla mano, non c’è stata affatto. Del resto il Parlamento europeo è eletto con il sistema proporzionale, dunque non c’è alcuna possibilità, nemmeno aritmetica, che la maggioranza non corrisponda al voto degli elettori.
Ma avere alimentato questa narrazione ha reso più difficile a Meloni difendersi dalle imbarazzanti dichiarazioni di Matteo Salvini, che ha parlato addirittura di «colpo di stato», rendendole assai complicato sia smentirlo (perché avrebbe dovuto smentire se stessa e la retorica antieuropeista cui ha fatto ampiamente ricorso nelle ultime settimane, dopo essere stata esclusa dalle trattative?) sia appoggiare una proposta definita in quei termini dal suo vicepresidente del Consiglio.
Come sempre, non mancano gli osservatori pronti a giurare che si tratti in realtà di un’astuta manovra mirata ad alzare il prezzo di un suo successivo assenso. Sta di fatto che l’argomento utilizzato nella polemica, e cioè che il gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) sarebbe il terzo del Parlamento, avendo strappato qualche seggio in più dei liberali, oltre a essere bizzarro in sé (secondo la stessa logica, Meloni in Italia avrebbe dovuto formare un governo con il Pd, che alle ultime elezioni ha preso più voti sia della Lega che di Forza Italia), rischia di sfarinarsi da un momento all’altro sotto gli occhi di tutti, con la possibile uscita dei venti rappresentanti del Pis polacco, tentati dalla formazione di un nuovo gruppo ultra-sovranista assieme all’ungherese Viktor Orbán. Una possibilità che al momento gli interessati danno al «50 per cento», forse solo per trattare da posizione più forte la loro permanenza.
Ma certo, se lo strappo si consumasse, determinerebbe un drastico ridimensionamento del partito europeo di cui Meloni è presidente. Il tentativo di giocare sui due tavoli, quello della grande politica europea e quello della ridotta antieuropeista, si chiuderebbe così, per lei, nel modo peggiore, con una doppia sconfitta e un doppio ridimensionamento. Per l’Italia, tutto considerato, sarebbe forse il male minore.