La vicenda dei Leopard 2A8 per il programma italiano di acquisizione di mezzi corazzati può essere un punto di osservazione molto efficace per capire lo stato dell’industria europea di difesa, e per provare a comprendere le sue prospettive future.
Innanzitutto, i fatti, per chi li avesse persi: lo scorso anno era stata annunciata l’intenzione italiana di acquistare centotrentadue carri armati (Mbt) Leopard 2A8 e centoquaranta veicoli speciali di vario tipo (recupero, genio, gettaponte ecc.) derivati dal Leopard 2. La decisione si aggiungeva a quelle di altri Paesi europei (centootto mezzi per la Germania, settantasei per la Repubblica Ceca, cinquantaquattro per la Norvegia, una cinquantina per la Lituania e i praticamente equivalenti quarantaquattro 2A7HU ungheresi).
Questa decisione, di fatto, sanciva una sorta di monopolio di questo Mbt sul mercato europeo, particolarmente importante sia perché è probabile che il fabbisogno di carri armati cresca ulteriormente nei prossimi anni, sia perché è in fase abbastanza avanzata lo sviluppo del successore, il modello Mgcs (Main Ground Combat System), portato avanti da una holding franco-tedesca (Knds, Thales e Rheinmetall) e l’ultima versione del Leopard sarebbe probabilmente il mezzo ideale per realizzare la futura transizione.
Negli scorsi giorni, è invece arrivata la notizia del fallimento della trattativa tra l’italiana Leonardo e la franco-tedesca Knds, a sua volta formata dai francesi di Nextra e dai tedeschi di Kraus Maffei-Wegmann, titolari di tutte le versioni del Leopard. Le ragioni del naufragio sono chiare: l’azienda italiana non avrebbe ottenuto quello che voleva in termini di partecipazione industriale al progetto, ossia di coinvolgimento nella produzione dei mezzi ordinati, e quindi si potrebbe andare verso altre scelte. Accanto a ciò, la decisione che non c’era posto per far entrare nessuno nel consorzio Mgcs, soprattutto per scelta francese. I transalpini, del resto, sono la parte debole dell’alleanza e temono di essere ulteriormente messi all’angolo in caso di ingresso di altre parti, peraltro già impegnate industrialmente con materiale tedesco.
Prima di vedere quali potranno essere gli sviluppi della vicenda, forse è il caso di chiarire alcuni aspetti più generali sull’industria della difesa europea e le sue peculiarità. Capire come funziona questo comparto, infatti, non è soltanto utile a comprendere meglio gli sviluppi della politica di sicurezza, ma anche le direzioni in cui verranno impostate le prossime scelte industriali. Tocca, insomma, fare un breve excursus storico, dagli ultimi anni della Guerra Fredda a oggi.
L’assetto attuale dell’industria della difesa europea nasce, infatti, a partire da un dato, ben riassunto in questo grafico, che si riferisce alla Germania ma vale un po’ per tutte le nazioni europee:
Si tratta della spesa per la difesa in Germania, in percentuale sul Pil, dal 1980 al 2022, quindi subito prima dell’invasione russa dell’Ucraina e della Zeitenwende (svolta epocale, come disse il cancelliere Olaf Scholz): più che dimezzata, e in modo strutturale. Ora, è chiaro che questa riduzione ha toccato soprattutto aspetti organizzativi, segnato la fine della leva obbligatoria e accompagnato una riduzione dell’organico ancora più importante, come indicato da quest’altro grafico.
Ma è altrettanto chiaro che tutto ciò non può non aver prodotto pesanti ripercussioni sull’industria. I produttori di armi, munizioni e altro materiale bellico, infatti, dipendono dalla spesa pubblica nazionale: visto che ogni stato ha interesse a essere il più possibile autonomo nella propria difesa, ha anche bisogno di produttori locali che ne assicurino le dotazioni fondamentali. A questo si aggiunge il fatto cruciale che si tratta forse del settore a più elevata densità tecnologica, punto ideale per fare ricerca e sperimentazione da investire in altri campi e quindi moltiplicatore di competitività. In terzo luogo, una buona industria della difesa è una buona leva per la politica estera, non solo commerciale: l’export militare è un modo estremamente efficace per aprire mercati e stringere relazioni.
Al tempo stesso, se la spesa pubblica scende al di sotto di un certo livello, diventa molto difficile mantenere un’industria autonoma. Negli anni Ottanta, praticamente ogni paese europeo di una certa importanza produceva gran parte del proprio armamento, spesso a partire da progetti nazionali: basti pensare ai carri armati, di cui in quel periodo furono realizzate versioni nazionali in completa autonomia da Francia (Leclerc), Regno Unito (Challenger), Germania (Leopard 2) e Italia (Ariete). Nel 1989, i diversi paesi si sono trovati con capacità industriali duplicate e ridondanti, una crescente integrazione europea che spingeva verso progetti collaborativi, la scomparsa del nemico tradizionale e l’apparizione di Nuovo ordine mondiale in cui i militari avrebbero fatto sostanzialmente «operazioni di polizia» e l’ansia di capitalizzare il prima possibile i dividendi della pace, ossia di usare in altro modo i quattrini fino ad allora spesi per armarsi. A ciò si aggiunge il paradigma economico dominante, basato su apertura al mercato, riduzione della spesa pubblica e massima efficienza delle filiere produttive.
Tutto questo ha prodotto una mano particolarmente significativa nella partita della grande privatizzazione degli anni Novanta: praticamente tutte le industrie della difesa sono diventate società quotate in borsa, anche se in alcuni casi con una golden share pubblica, come in Francia. Aziende nazionali, come la britannica Bae, sono diventate colossi multinazionali; altre, come l’italiana Leonardo, si sono consolidate in giganteschi kombinat che producono di tutto, dai siluri ai satelliti, dagli elicotteri alle soluzioni di cybersecurity, dai servizi per la Pa a tecnologie per l’automotive. La Germania, sempre attenta alle logiche industriali e con una governance aziendale fortemente influenzata dagli stakeholder pubblici e sociali, resta relativamente indietro in questa corsa al gigantismo, con la sola Thyssen Krupp tra le prime dieci (ma il suo fatturato è prevalentemente estraneo alla difesa) e il colosso europeo Airbus, la cui produzione è, a sua volta, soprattutto legata all’aviazione civile.
Il risultato è che in questi anni le aziende della difesa sono diventate degli strani ibridi. Da una parte, hanno adottato tutti gli stilemi delle industrie quotate, quindi sono costantemente in mezzo ad acquisizioni, dismissioni, alleanze e rivalità, almeno in parte fatte più per inseguire i mantra del momento che per vere ragioni industriali; altro elemento chiave, hanno adottato la linea della «zero immobilizzazione», quindi niente scorte (liquidate da anni a prezzi di realizzo) e catene produttive su misura degli (scarsi) ordini correnti. Dall’altra, sono rimaste in gran parte entità con una scarsa propensione al rischio e all’investimento in private venture, che le porta a muoversi solo quando c’è la commessa certa. Anche perché vi è una doppia dipendenza: da un lato, le aziende dipendono dalle scelte di politici e militari, dall’altro hanno una notevole capacità di influenzarle. Nulla di nuovo, del resto: praticamente tutti gli elementi di questa descrizione valgono anche per l’industria americana.
Ora, dovrebbe essere abbastanza chiaro che questa impostazione strategica non si è rivelata esattamente la più adatta per il contesto attuale. La Russia, al terzo anno inoltrato di guerra, può ancora impegnarsi in una pressione offensiva che, per quanto sterile, le permette di mantenere l’iniziativa, grazie alle immense scorte di materiale ex-sovietico che nessuno si è mai sognato di dismettere. Dalla nostra parte, dopo aver armato l’Ucraina con le scarsissime scorte rimaste nei nostri depositi, l’industria europea e americana, pur immensamente superiore in termini tecnologici e produttivi alla controparte moscovita, fatica ancora a mettersi al passo, anche perché ben pochi governi, a conti fatti, hanno sottoscritto impegni credibili che giustifichino l’ampliamento delle linee produttive. Quelli che l’hanno fatto o lo stanno facendo (Germania, Svezia, ultimamente anche Francia) stanno investendo non solo nella difesa e nel sostegno alla lotta per la libertà dell’Ucraina, ma anche negli assetti futuri di un comparto industriale vitale, che probabilmente dovrà cambiare parecchio.
E qui torniamo alla questione Leonardo-Knds: qui c’è una bella commessa, da 8,2 miliardi, per un programma di acquisizione confermata di un parco di mezzi molto grosso. D’altra parte, non si prevedono certo ritmi da economia di guerra. Il piano di produzione si estende infatti per circa undici anni, dal 2027 al 2037, per un totale di una trentina scarsa di veicoli all’anno, che dovrebbero essere terminati, guarda caso, più o meno in tempo per l’introduzione in servizio del Mgcs. A queste condizioni, Knds ha dei buoni argomenti: non sarebbe particolarmente saggio, né utile, aprire una terza linea di produzione, oltre a quelle già attive in Germania e Ungheria, per lavorare a ritmi così bassi, né tanto meno avrebbe senso lo sviluppo di sistemi locali per la variante italiana. Le richieste di Leonardo sono sensate nella prospettiva pre-2022, quando ci si muoveva su quantitativi limitati e ogni commessa era il risultato di estenuanti bizantinismi politici, non di un contesto in cui c’è una guerra alle porte e l’industria deve correre.
Semmai, è interessante il fatto che Leonardo, che comunque è un’impresa privata, possa di fatto mettere il veto a una decisione di acquisizione presa dal ministero della Difesa e inserita in un programma pluriennale approvato dal Parlamento. Potrebbe sembrare un suicidio, se non ci fosse un’alternativa pronta: il KF-51 Panther sviluppato autonomamente dalla Rheinmetall, non ancora entrato in servizio con nessun esercito (anche se con un contratto di sviluppo per l’Ungheria) e quindi perfetto per l’apertura di una nuova linea di produzione, sulla quale Leonardo potrebbe dire molto. E mettersi in buona posizione anche per il successore, visto che non è affatto detto che Rheinmetall resti a lungo nel consorzio Mgcs; comunque, il Panther è un mezzo più nuovo dell’ultima versione del Leopard e potrebbe avere una lunga vita utile davanti a sé.
Ma la strategia di Rheinmetall e il suo impatto su tutto lo scenario europeo meritano un approfondimento a parte.