A proposito della battaglia dell’opposizione contro l’Autonomia differenziata, ma anche, cambiando quel che c’è da cambiare, rispetto alle altre riforme istituzionali, si sta diffondendo, in area riformista, o super riformista, uno strano argomento. Dice più o meno così: ma come, proprio voi che già più di vent’anni fa avete proposto (nel caso del premierato) e persino varato (nel caso del federalismo) leggi analoghe o addirittura identiche, senza mai riuscire a cavarne nulla di buono (tanto è vero, aggiungo io, che gli stessi democratici nel referendum del 2016 sul Titolo quinto provarono a fare marcia indietro), adesso che per l’ennesima volta ci riprova la destra a realizzarle (nel caso del premierato) o ad attuarne le parti rimaste per vent’anni lettera morta (nel caso del federalismo), vi mettete di traverso?
Eh già. Dopo appena un quarto di secolo di tentativi andati a vuoto, che motivo avremmo di fermarci? Non ci siamo forse divertiti un sacco, in fin dei conti, in tutti questi anni di spensierate battaglie riformatrici, sempre all’insegna degli stessi progetti, delle stesse parole d’ordine, degli stessi luoghi comuni, sempre con la stessa impenetrabile indifferenza all’esito concreto dei nostri sforzi, senza mai nemmeno lasciarci sfiorare dall’idea di dovere a un certo punto tirare un bilancio dei costi e dei benefici delle nostre iniziative, per valutare una buona volta la solidità delle nostre tesi nel confronto con la realtà?
L’ideologia della Seconda Repubblica, il miraggio di una palingenesi fondata su bipolarismo maggioritario, federalismo e presidenzialismo (semipresidenzialismo, premierato o giù di lì), continua ad accomunare destra e sinistra, al di là di divisioni tattiche come quelle che hanno portato la Lega a contestare la riforma federalista del centrosinistra nel 2001, per poi attuarla nel 2024, e il centrosinistra a fare l’inverso.
Negli ultimi tre decenni una folta schiera di commentatori ha stigmatizzato tali occasionali divisioni, senza invece mai mettere in discussione la fondamentale unità di vedute di tutti i protagonisti del dibattito. Come i marxisti degli anni ottanta a proposito del socialismo reale, anche per loro non c’è smentita della realtà che basti a metterne in dubbio le tesi, che sono state sempre e comunque applicate male, o non abbastanza, o non abbastanza a lungo.
Il punto chiave è che il tempo non scade mai, le prove d’appello sono praticamente infinite e il tempo dei bilanci è rimandato in eterno. E così tutto può procedere come sempre, da un fiasco all’altro, senza che nulla cambi, se non nella sempre maggiore ostinazione con cui gli stessi progetti, gli stessi argomenti, gli stessi slogan vengono rilanciati ogni volta.
Nel frattempo, intorno a noi, è cambiato il mondo. Siamo passati dall’epoca della «fine della storia», in cui il modello della democrazia liberale sembrava non avere più avversari (ed era quindi anche più comprensibile una certa insofferenza per tanti contrappesi e compromessi che imbrigliavano l’azione di governo), all’epoca di Donald Trump negli Stati Uniti, delle democrazie illiberali nell’Europa dell’est e del gran ritorno dell’estrema destra persino nel cuore franco-tedesco dell’Ue (per non parlare dell’Italia). Non sarebbe il caso di tenerne conto?
La verità è che non so neanche io perché mi ostino a ripetere queste cose, se non forse nella speranza che possano un giorno tornare utili ai miei nipoti, quando nel 2093 si sentiranno dire che occorre realizzare il federalismo, il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il premierato semipresidenziale, per completare la transizione iniziata esattamente cento anni prima.