L’alba del populismo La giustizia militante e la trentennale gregarietà della sinistra

L’intervista dell’ex senatore Pellegrino sul Corriere riapre l’antica questione della sottomissione della politica, e della ditta Pd, al potere giudiziario. E fa notare i passi indietro della gestione Schlein rispetto ai predecessori

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Più di trent’anni dopo riemergono questi fantasmi, direbbe Eduardo, il vento del Novantatré italico che dal palazzo di giustizia milanese spazzò via partiti nati un secolo prima, o mezzo secolo prima, lasciando in piedi solo il Pds, erede del Pci, come assicurato ai tempi da “Luciano” (ovviamente Violante), come disse l’allora numero due del partito Massimo D’Alema a un costernato Giovanni Pellegrino, anch’egli Pds, presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato.

Pellegrino aveva già raccontato tutto o parecchio, in questi decenni. Stavolta la sua intervista a Francesco Verderami del Corriere della Sera forse è un po’ più esplicita (tutti i partiti prendevano soldi, anche Pci-Pds e Msi), o probabilmente la sua forza è dovuta alla riemersione di ricordi che impattano con la realtà di oggi. Perché il punto è sempre lo stesso da allora. Riguarda il posizionamento politico e culturale della sinistra di fronte al dilemma tra politica e magistratura. E in poche parole viene da dire che l’ultima “revisione” che i post-comunisti dovrebbero fare è proprio su questo terreno. Il problema non sono più da tempo il capitalismo, i grandi valori democratici, il nervo ancora scoperto è quello della nozione di giustizia in riferimento ai diritti del cittadino e in relazione ai problemi che la politica ha con il codice penale. E soprattutto al ruolo che in un sistema democratico hanno i magistrati. L’altro potere.

Il Partito democratico, che pure ha tanto innovato nel pensiero della sinistra, su questo tema ha fatto poco: al massimo dicendo e non dicendo. Al dunque, il partito dei giudici è rimasto sempre al di sopra di ogni sospetto (solo Matteo Renzi provò a mettere le dita nella corrente ma venne fulminato) e i fruscii delle toghe non hanno smesso di incutere quel timore che impedisce di dire quello che bisogna dire, e cioè che Mani Pulite, più che esorbitare, di fatto assaltò la politica.

Per questo aveva colpito che proprio “Luciano” – ovviamente Violante – avesse detto poche settimane fa al Riformista che Bettino Craxi «aveva ragione» quando affermò: «Guardate che se non troviamo una soluzione politica, prevarranno l’avventurismo e la degenerazione». Infatti, ha detto Violante, «è quello che è avvenuto. Perché distingueva il piano politico da quello giuridico. Purtroppo nessuno di noi capì. E sappiamo tutti come è andata». Già, nessuno di loro capì.

Più prosaicamente è probabile che a nessuno di loro garbasse l’idea di mettersi contro il potere di Antonio Di Pietro e soci: certi, per salvarsi, ma soprattutto perché quelli «stanno facendo una rivoluzione», come con machiavellismo da Bignami D’Alema spiegò a Pellegrino.

Ieri garbatamente Violante ci ha ricordato un suo articolo del 1993, quindi contemporaneo a quei fatti, nel quale metteva in guardia sullo «sfrenato giustizialismo». Scriveva: «Stiamo attenti, nessuna società accetterà di essere governata dai giudici».

C’è da chiedersi se quella stagione sia realmente finita. Se guardiamo all’inchiesta genovese in cui è coinvolto Giovanni Toti, da un mese agli arresti domiciliari, parrebbe di no. Ma la sinistra balbetta. Sui fatti di ieri e su quelli di oggi. Accetta la sfida della separazione delle carriere? Ai tempi non lontani della segreteria di Maurizio Martina il Partito democratico era favorevole. Oggi Elly Schlein dice no. Le toghe fanno ancora paura, trent’anni dopo.

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