Bruxelles non è la RaiSulle nomine europee, Giorgia Meloni è una regina senza corona

I leader socialisti, liberali e popolari del Consiglio europeo hanno fatto capire alla presidente del Consiglio che possono decidere da soli i futuri top job Ue, senza il suo sostegno. Quando si metteranno d’accordo, vedranno quali caselle lasciare al nostro paese

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Giorgia Meloni aveva capito che aria tirava appena ha messo piede a Bruxelles. Le parole del Cancelliere Olaf Scholz sull’esclusione dell’estrema destra, in cui metteva anche i Conservatori e Fratelli d’Italia, le considerava scontate in bocca a un socialista. L’atteggiamento non amichevole di Emmanuel Macron è una vecchia storia. Ma non aveva messo in conto la durezza dei Popolari; soprattutto aveva sottovalutato che in Europa il bipolarismo non ha nulla a che fare con quello italiano mentre il manuale Cencelli è sempre valido a ogni latitudine e in qualunque tempo. È il gioco inesorabile del potere. 

Meloni confidava nel ruolo di Antonio Tajani, un decano che sa come muoversi dentro il Partito popolare europeo, il principale partito europeo che vuole dare le carte delle cariche apicali di Palazzo Berlaymont e l’Europarlamento. Invece il nostro ministro degli Esteri conta per i suoi rapporti personali e per quella percentuale di voti presi alle europee: un dignitoso nove per cento che gli ha permesso di dimostrare che Forza Italia vive, sopravvissuta a Silvio Berlusconi, e ha superato di un soffio la Lega. 

Dopo di che, quando si aprono i dossier del potere, i cosiddetti top job, Tajani non conta nulla: deve fare i conti con i pesi massimi della sua famiglia politica in cui è emerso il premier polacco Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, che ha sconfitto in patria Mateusz Morawiecki, sodale nei Conservatori della Meloni. È stato il polacco a essere il più tranchant con la presidente del Consiglio italiana, ricordandole che la maggioranza Ursula è autosufficiente, che non ha bisogno dei voti della destra. Si dia una regola, allora. 

Potrebbe rivelarsi miope questo atteggiamento nel segreto del voto a Strasburgo, e Tajani ha cercato di spiegarlo in tutti i modi al capo del Ppe Manfred Weber: non si può far finta che nelle urne non sia successo niente a destra e non riconoscere che la leadership Meloni ne è uscita rafforzata. Ma la presidente del Consiglio e Tajani, il quale deve giocare sul tavolo romano e quello di Bruxelles, non toccano palla. 

Brigano per aver la vicepresidenza della Commissione e un portafoglio pesantissimo per il commissario italiano, sono però finiti in un angolo perché prima devono mettersi d’accordo gli altri, i popolari, i socialisti e i liberali. Solo dopo avere deciso la loro coabitazione ai vertici della Commissione e del Parlamento, si passerà alle altre caselle. Ma Meloni una delega in bianco non vuole darla. Già deve votare von der Leyen, ammettendo quello che Marine Le Pen criticamente aveva previsto. Deve pure stare appesa alle concessioni dei suoi avversari, di coloro che la considerano destra estrema e non vogliono mescolare i loro voti a Strasburgo con quelli di Fratelli d’Italia.

Meloni è una regina senza corona in Europa. Il suo regno in Italia è un territorio complementare e periferico. Non può sperare nei buoni uffici di Tajani che chiede ai Popolari, senza essere ascoltato, di non chiudere la Ue in una maggioranza a tre, lasciando fuori i Conservatori. Quello che Tajani fa finta di non capire è che i Conservatori, così come sono oggi, senza un’evoluzione stabile accanto al Ppe, sono l’apripista di Le Pen, che sta arrivando se vince le politiche in Francia, e Donald Trump prossimo venturo. 

Al posto di considerarsi un ponte di dialogo go between con le destre, Meloni dovrebbe essere un altro mattone del muro contro le destre, e non limitarsi a far sedere un italiano su una poltrona robusta. Le metamorfosi dovrebbero essere vere per risultare credibili, ma attorno a sé Meloni ha troppe braccia tese per fare un salto in alto alla Gianmarco Tamberi agli interessi nazionali.

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