Nella comunicazione pubblicitaria quello che oggi chiamiamo socialwashing non è un fenomeno nuovo: da sempre alcuni brand tendono a fornire ai consumatori un’immagine più positiva di quello che è il loro reale impegno. Tuttavia è solo quando il racconto si spinge oltre e la comunicazione offre una verità parziale o, ancora peggio, informazioni false che possiamo parlare di socialwashing.
Ma anche scegliere il silenzio, e quindi non parlare dei problemi sociali, ambientali o di governance, è una strategia che può far correre all’impresa il rischio di essere accusata di washing.
In un contesto dove la sostenibilità è sempre più al centro dell’attenzione crescono i casi di socialwashing: per chi li pratica l’obiettivo è dare agli stakeholder, in particolare ai consumatori, un’immagine dell’organizzazione migliore rispetto alla realtà. E naturalmente come per il greenwashing anche nel caso del socialwashing la grande imputata è la comunicazione. Si può parlare di socialwashing quando, per esempio, un’azienda racconta una «conversione» al sociale che non corrisponde a un effettivo cambiamento nella gestione delle persone: si va dal rapporto poco corretto con i dipendenti fino al finto impegno nei confronti della comunità.
Viene definito pinkwashing un atteggiamento apparentemente solidale nei confronti delle donne e a favore dell’emancipazione femminile, privo però di un reale impegno dell’organizzazione per il rispetto dei diritti e per l’uguaglianza delle persone. In questo caso la comunicazione fa leva sul desiderio di giustizia, equità, inclusività per migliorare le vendite o l’immagine dell’impresa. È un fenomeno trasversale che coinvolge diversi brand, dal settore della cosmesi alle aziende del food: il rischio pinkwashing è infatti un problema che riguarda tutte le imprese che hanno deciso di cavalcare quella che viene chiamata l’«onda rosa» a proprio vantaggio.
Quante dichiarazioni a favore dell’universo femminile vengono fatte l’8 marzo e negli anni più recenti il 25 novembre, giornata dedicata a combattere la violenza contro le donne? In quei giorni quante confezioni diventano rosa, quanti palazzi si illuminano di colori diversi, quante campagne si arricchiscono di un fiocchetto rosa o rosso? Ci siamo talmente abituati a questi fenomeni che non ci chiediamo nemmeno più se l’impegno di queste imprese sia reale e se, per esempio, stiano riducendo il gender gap al loro interno o facilitando la carriera delle donne ai livelli apicali dell’organizzazione.
Alcuni casi di pinkwashing sono diventati celebri come quello della catena americana di fast food specializzata nella preparazione del pollo fritto KFC che nel 2010 aveva collaborato con Susan G. Komen, associazione impegnata nella lotta al cancro al seno. La campagna che vedeva i famosi secchielli di pollo tingersi di rosa fu un successo e vennero raccolti quattro milioni di dollari per l’associazione. In realtà i soldi erano stati donati dall’azienda prima della campagna e l’iniziativa era solo un modo per ottenere visibilità e consensi: una notizia che aveva fatto a suo tempo gridare allo scandalo. Sempre Susan G. Komen, è stata criticata nel 2013 per aver accettato il sostegno economico della società di servizi petroliferi Baker Hughes: l’accordo prevedeva che un migliaio di trivelle per l’estrazione di combustibili fossili fossero dipinte di rosa. La polemica riguardava il fatto che secondo la scienza l’industria estrattiva è responsabile della dispersione nell’aria di tossine che provocano anche il tumore al seno.
Negli anni diverse aziende sono state accusate di pinkwashing. Ha fatto discutere, per esempio, il caso del marchio Christian Dior, che aveva messo in vendita una t-shirt e altri capi di abbigliamento con la scritta «We Should All Be Feminists» (Tutti dovremmo essere femministi). L’accusa era che l’impresa non si era preoccupata del fatto che questi capi venivano prodotti in laboratori tessili asiatici dove le dipendenti lavoravano in condizioni di vero sfruttamento. Di un problema simile è stata accusata anche l’azienda svedese del fast fashion H&M che si era dichiarata a favore dell’empowerment femminile, dell’inclusione e del «body positive» ma non aveva verificato se i suoi fornitori sfruttassero lavoratrici e lavoratori nei diversi paesi del mondo in cui l’azienda ha numerose sedi produttive.
Come non ricordare nel 2017 l’iniziativa (ripresa poi nel 2019) Pomellato Sisterhood dove, in collaborazione con la fotografa Cass Bird, Chiara Ferragni (in quegli anni l’influencer non era ancora nell’oc- chio del ciclone) raccontava di voler sostenere l’empowerment femminile ponendosi come esempio di inclusività? A suo tempo l’azienda aveva comunicato che la campagna voleva essere un esempio di ispirazione e #PomellatoForWomen dichiarava di battersi non solo per l’uguaglianza di genere ma anche per promuovere una nuova idea di bellezza autentica. Chiara Ferragni con altre donne famose del calibro di Jane Fonda – non proprio dunque delle «donne normali» – doveva essere un esempio di femminilità contemporanea per le imprese e le persone.
Sempre del 2017, anche se apparentemente meno grave, è il caso di Audi che durante il Super Bowl, il più importante evento sportivo americano, aveva lanciato una campagna per promuovere l’uguaglianza di genere nonostante la scarsa rappresentanza femminile nei ruoli dirigenziali e l’assenza di donne nel suo consiglio di amministrazione. Lo spot Daughter proponeva attraverso uno storytelling emozionale una corsa di kart dove una ragazzina primeggiava contro i compagni maschi. Con questo video Audi cercava di lanciare un messaggio positivo ricordando la necessità di colmare il gender gap e di combattere gli stereotipi. Nonostante le buone intenzioni l’azienda ha dovuto ritirare la campagna a seguito delle accuse di superficialità e incongruenza.
Non se ne è parlato molto ma è interessante ricordare anche la campagna realizzata da Shell in India per sostenere l’empowerment femminile. Forse non può essere classificata esattamente come un caso di pinkwashing ma il risultato dell’iniziativa non è convincente: con #MoveWithShell la grande società petrolifera ha infatti utilizzato un tema importante come il mancato inserimento delle donne nel mondo del lavoro per distogliere l’attenzione dalle questioni ambientali. La campagna si basava sulla storia vera della vita di Yogita Raghuvanshi, la prima donna camionista indiana.
Se siamo ancora oggi costretti a difenderci dal pinkwashing viene da chiedersi a quanto siano serviti gli sforzi di Barbara Brenner, l’attivista americana che non solo utilizzò per prima questo termine ma creò nel 2002 la campagna Think Before You Pink, il cui obiettivo era stimolare le persone ad avere un approccio più critico e le imprese a essere più responsabili in particolare nelle iniziative che riguardano la raccolta fondi per la ricerca sul cancro al seno.
Tratto da “Pericolo socialwashing” (Egea) di Rossella Sobrero, 24,90€ , pp. 216