Black MambaQuando Kobe Bryant sconfisse i Magic di Dwight Howard

In “La via di fuga” (Albatros), Francesco Rivano racconta la finale Nba del 2009 tra Lakers e Magic attraverso gli occhi di Sam e del professore James

LaPresse

La regular season si concluse con i due giocatori più attesi della Lega, Kobe Bryant e LeBron James, capaci di portare rispettivamente i Lakers e i Cavs in testa alle classifiche di Conference. Ma mentre ad Ovest il pronostico venne rispettato da una cavalcata implacabile dei californiani che portò i Lakers a bissare la presenza alle Finals dell’anno precedente, nella costa atlantica gli Orlando Magic sorpresero dapprima i campioni uscenti dei Celtics per poi prendersi lo scalpo dei più accreditati Cleveland Cavaliers al raggiungimento dell’edizione 2009 delle Nba Finals. Lakers contro Magic, Los Angeles contro Orlando, praticamente Davide contro Golia.

James mi aveva fatto intendere, durante gli infiniti pomeriggi trascorsi a raccontarmi tutto ciò che mi ero perso sul basket, quanto la storia delle due franchigie fosse completamente opposta. Da un lato una squadra che aveva esordito e vinto il primo titolo NBA nella stagione 1948-1949; una franchigia nella quale avevano militato i migliori giocatori della storia del gioco, capace di vincere il titolo per ben quattordici volte. Dall’altro una franchigia giovane, fondata alla fine degli anni ’80, ma capace di raggiungere le Finali già nel 1995.

L’anello di congiunzione tra le due squadre era un omaccione alto 216 centimetri per circa 150 chilogrammi di peso che avevo visto trascinarsi per il campo in maglia Suns per tutta la stagione, ma che in realtà, dai racconti di James, si era guadagnato nel corso della carriera l’appellativo che si era autoaffibbiato di giocatore «più dominante di sempre». «Sam, ricordi le statue allo Staples Center? Una è di Shaquille O’Neal. In questi giorni ti racconterò come e perché Shaq ha dimostrato di essere tra i più forti giocatori ad aver militato in questa Lega». Il pronostico di quella serie era abbastanza chiuso e le aspettative vennero rispettate nelle prime due gare della serie disputatesi in California. Gara 3 era in programma per il 9 di giugno e James prenotò tre camere al Courtyard by Marriott, poco fuori il centro di Orlando, nelle vicinanze dei centri di divertimento più famosi di tutta la Florida.

Arrivammo nella città di Mr. Walt Disney il giorno prima della partita. «James, lo so che ti potrà sembrare una richiesta strana, ma ci provo. Che ne dici se oggi andassimo a Disney Wolrd?». Fin da bambino avevo sempre desiderato visitare i grandi parchi di divertimento degli Stati Uniti d’America. Di frequente mi ritrovavo ad ascoltare di nascosto e a invidiare quei bambini che, accompagnati dai loro genitori, raccontavano di essersi fatti fotografare con Topolino e Minnie. Troppo spesso, nelle poche ore trascorse davanti alla TV nell’orfanotrofio, mi ero illuso di poter un giorno partecipare alle grandi parate assieme ai personaggi della Disney e il più delle volte il mio fantasticare veniva interrotto dall’inesorabile rimbrotto di Miss Taylor che rimarcava con sadico piacere che noi, quei posti, non li avremmo mai visitati.

A quella richiesta James si girò e mi guardò stupito, ma rivolgendomi il suo sorriso serafico rispose con naturalezza: «Bella idea, oggi si torna bambini. Sal prepara l’auto, destinazione Disney World». Prima di partire James mi fermò nella hall dell’albergo. «Sam, voglio immortalare questo momento». Richiamò l’attenzione della receptionist e con un cenno del capo la invitò a raggiungerci per scattare la foto che avrebbe immortalato James, me e la statua enorme di Mickey Mouse che torreggiava all’ingresso dell’hotel. «Sventola i biglietti Sam, non di solo basket saranno i tuoi ricordi!». E io, imbarazzato, stringevo tra le dita il ticket acquistato direttamente alla reception. Magic Kingdom e tutte le sue attrazioni da mondo delle favole; Animal Kingdom e la rivisitazione fedele del mondo intero, della sua fauna e della sua flora e una capatina agli Universal Studios furono le tappe di una giornata memorabile, che porterò per sempre nel cuore. Ma in tutta quella favola vissuta ad occhi aperti e in piena consapevolezza, un ricordo particolare rubò la scena a tutto il resto. Eravamo appena entrati nel magico mondo incantato della Disney quando il mio sguardo fu catturato dall’enorme castello che si ergeva in fondo al viale di ingresso nel quale si era appena conclusa una splendida sfilata in costume.

Mentre camminavo con gli occhi fissi a quel maniero che da bambino avevo tante volte sognato di visitare, sbattei contro qualcosa che mi fece ridestare immediatamente. Mi resi conto di aver colpito accidentalmente un passeggino. Preoccupato cercai lo sguardo, che immaginavo furente, di una madre irritata, ma nessuno sembrava essersi accorto di quel piccolo incidente. Posai gli occhi sulla bambina che sedeva sul passeggino e il sorriso che mi regalò fu il dono più bello che mai avessi potuto ricevere. La sua pelle ramata aveva uno splendore speciale e i suoi capelli folti e ricci sembravano una nuvola di cioccolato. Restai qualche secondo ad ammirare tanta dolcezza, finché mi accosciai di fianco al passeggino per rivolgere una carezza alla piccola. I suoi occhi magnetici, stretti, con il taglio rivolto verso l’alto, mi riportarono alla mente un volto già noto ma che al momento non fui in grado di riconoscere.

La madre, intenta a discutere con la primogenita, si rese conto della mia presenza e con l’eleganza di una pantera scosse il capo per spostare i lunghi e lucenti capelli neri e rivolgermi il suo sguardo. La guardai dal basso verso l’alto: se qualcuno mai mi avesse chiesto di raffigurare la bellezza femminile, lei sarebbe stata la sintesi perfetta. Capì subito che non avevo cattive intenzioni, cercai di spiegare di aver colpito accidentalmente il passeggino, ma lei non si curò minimamente del mio goffo incidente. «Signora, lei ha una bambina bellissima, quanti anni ha?». «Ne ha compiuti tre a maggio» rispose con voce placida, e dopo aver ripreso il controllo del passeggino e aver rivolto uno sguardo ossequioso nei confronti di James come se lo conoscesse, si congedò con un accenno del capo, si girò verso la figlia maggiore e la invitò con tono autorevole a proseguire il percorso verso il castello incantato. Pensai “ma James la conosce” e stavo per chiederglielo, ma nello stesso istante l’inizio di una nuova parata mi distolse dal quel pensiero.

La partita dell’indomani all’Amway Center di Orlando fu una vera e propria prova di orgoglio. I californiani si arresero solo a pochi secondi dalla fine, ma la vittoria in gara 3 fu solo il protrarsi di un’agonia già scritta per i Magic. A distanza di due giorni i Lakers ristabilirono il distacco portandosi sul 3 a 1, concedendosi la chance di chiudere i conti in gara 5 il 14 giugno, sempre in Florida. La partita era prevista per le 20 e James decise di partire con largo anticipo alla volta dell’Amway Center.

[…]

Passeggiando al centro della città di Orlando, finalmente distanti dai laghetti che attorniavano il nostro hotel e che riportavano l’attenzione a tenersi distanti dalla riva per non imbattersi negli alligatori, passammo due ore sotto un sole cocente a chiacchierare dei Magic. James si soffermò sul primo periodo di vera gloria della franchigia, a metà degli anni ’90, quando Shaq e Penny Hardaway arrivarono in fondo ai Playoffs fino ad arrendersi solo di fronte agli Houston Rockets campioni Nba nel 1995. Mi informò del fatto che la squadra di Orlando deteneva il record di assist, ben trenta, distribuiti su singola gara da un giocatore grazie ad una prestazione strabiliante dell’attuale allenatore dei Milwaukee Bucks: Scott Skiles. Puntualizzò quanto la franchigia della Florida fosse stata in grado di attirare l’attenzione di campioni del calibro di Tracy Mc Grady ora in forza ai Rockets che, dai racconti di James, sembrava essere un vero e proprio funambolo del gioco nonostante dall’aspetto sembrasse poco sveglio. «Lo chiamano Big Sleep, ma dentro al campo fa tutto tranne che dormire. Un giorno lo andremo a vedere, nonostante non sia più quello dei bei tempi».

L’orario della partita arrivò in un battibaleno ma il sole, oscurato solo per pochi secondi da un acquazzone violento ed improvviso, non diminuì minimamente l’intensità del suo calore. Entrammo nell’arena e come al solito grazie a James evitammo le interminabili file finché, al momento della palla a due, ci ritrovammo l’uno al fianco all’altro a godere dello spettacolo più bello del mondo. «Sai già come finirà vero?» mi chiese James sorridendo e io, nonostante sperassi di assistere ad una serie più lunga, chinai il capo e risposi: «Eh sì James, c’è Kobe». E Kobe non deluse le aspettative. Con una prestazione da trenta punti stroncò ogni velleità dei Magic di non voler vedere festeggiare gli avversari in casa propria.

Al fischio della sirena i Lakers esplosero in tutta loro gioia per aver conquistato il quindicesimo titolo di campioni NBA e la cerimonia di premiazione incoronò Kobe come miglior giocatore delle Finali. «Sal, vieni a prenderci all’ingresso dell’arena».

Proprio mentre James invitava il suo autista a raggiungerci laddove ci aveva sbarcato all’andata rivolsi lo sguardo verso il campo e rimasi esterrefatto: «Andiamo Sam, Sal ci aspetta» ma io ero come ipnotizzato dall’immagine che stavo contemplando. In mezzo al campo Kobe, al fianco di due sagome che mi sembrò di riconoscere, teneva sulla mano destra il Larry O’Brien Trophy di campione NBA, sulla sinistra il Bill Russell Trophy di miglior giocatore delle Finals e tra le braccia un angioletto nero che riconobbi subito: «Ma quella è…». «Andiamo Sam, conosci Sal e quando guida nervoso mi fa star male». Seguii James senza distogliere lo sguardo dal campo, realizzando che, qualche giorno prima a Disneyland, avevo accidentalmente incrociato la famiglia del grande campione, del mio idolo.

Tratto da “La via di fuga” (Albatross), di Francesco Rivano, pp. 236, € 15,90

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