Il fallimento elettorale dell’ex Terzo Polo non lascia una tabula rasa, e prima di un rassegnato «tutti a casa», forse c’è ancora spazio per provarci, sia pur in condizioni peggiori e senza una legge proporzionale. Parliamo di 1,6 milioni di elettori, il sette per cento dei votanti, frutto di un ricambio algebrico tra vecchi che hanno rinunciato e nuovi che ci hanno provato, che vale almeno tre milioni di voti. Un potenziale dieci per cento degli elettori è rilevante, specie in un sistema in movimento, non assestato – speriamo – attorno a un bipolarismo fuorviante.
Alle Europee si sono divisi e hanno prodotto uno spreco di democrazia e di rappresentanza di dimensioni storiche. Ma la scelta era consapevole e fatta nonostante il comportamento dei vertici, con una costanza nelle rilevazioni dei sondaggi anche nei momenti più bassi di autolesionismo. Parlare a questi elettori di un ritorno sotto le insegne dei vincitori Antonio Tajani ed Elly Schlein, da cui in gran parte venivano, sarebbe un incentivo all’assenteismo. Sarebbe frustrante.
C’è dunque spazio almeno per un dibattito importante, a cui molti hanno già partecipato, a cominciare da un protagonista come Matteo Renzi, che con la solita lucidità sembra aver fatto fuori anche sé stesso. Tra i contributi più argomentati, Oscar Giannino su “Il Foglio”, in particolare per quanto riguarda la sorte dei liberali, ed Enrico Cisnetto con una bella puntata di War Room.
Dentro quell’1,6 milioni di elettori, i liberali non erano certo molti, e non hanno specifiche responsabilità (le loro associazioni hanno fatto il possibile e il successo a Est di Graham Watson, affiancato da una giovanissima Aurora Pezzuto, è da medaglia), ma le loro idee in materia europea sono state una specie di denominatore comune.
Quanto alla composizione di quel sette per cento, è certo che in gran parte siano frutto delle componenti personalistiche (Renzi, Carlo Calenda, Emma Bonino), essendo il resto disperso dentro un dialogo non facile, a esempio, tra la piccola componente socialista e quella liberale, o di quest’ultima con posizioni radicali spesso troppo monotematiche.
Oscar Giannino, da buon analista, ha fatto una panoramica completa con il suo esamerone, una diagnosi in sei capitoli. Molti ben condivisibili, come la denuncia degli atteggiamenti elitistici e saccenti (una specie di macronismo da importazione), o la distinzione tra l’aprioristico no al premierato senza avere a disposizione una legge elettorale. Ma soprattutto è dirimente la critica al bipolarismo fasullo, argomento che da solo basterebbe per convalidare la necessità di un Terzo Polo da rilanciare.
Ma allora, qui nasce il dissenso, dopo aver negato l’utilità del bipolarismo, perché impegnarsi alla ricerca delle ragioni di una alleanza con l’uno o l’altro dei falsi riferimenti dell’offerta uscita dalle urne? Le alleanze vengono dopo, in questo momento politico è più utile la distinguibilità senza ambiguità e preferenze confezionate.
Stringi stringi, l’analisi ci porterebbe a scegliere tra una posizione del tipo del modello francese di Raphaël Glucksmann, o alternativamente a cercare di insegnare alla destra a essere liberale. La preferenza neppur troppo dissimulata per questa seconda opzione porterebbe a ripetere un errore già fatto senza risultato: quello del paternalismo pedagogico che già tentò di insegnare a Silvio Berlusconi come si sta al mondo. Vi cascarono socialisti soprattutto, ma anche liberali e democristiani.
Scambiando ora la realpolitik delle donne e uomini di destra al governo, costretti a far di necessità virtù (Giancarlo Giorgetti, Raffaele Fitto), come fossero sintomi di illuminazione liberal di ritorno, si sbaglia molto la valutazione e soprattutto l’obiettivo. E si finisce per auspicare un «ruolo di interesse nazionale, quello di spingere questa destra a essere più europea e meno populista, più occidentale e non putiniana, più stato di diritto e non vannacciana», scrive Giannino.
Bellissimi auspici, ma potrebbero essere un programma non per il Terzo Polo, che su questo è nato – ma per Forza Italia, anzi esserlo già stato quando faceva ancora in tempo a non genuflettersi davanti all’unità tra diversi molto diversi. Il partito di Berlusconi, con Tajani, ha prosperato sull’esatto contrario, tenendo il sacco di amici e alleati durante la rapina di valori liberali sempre in nome del mito del centrodestra.
Intendiamoci: Forza Italia o qualcosa di simile contiene elementi che potranno forse essere utili a dare una mano alla nascita di un polo davvero riformatore, che non scambi le riforme istituzionali con propaganda identitaria, così come prima o poi torneranno da Strasburgo i riformatori del Partito democratico che lì si sono rifugiati lasciando credere che il loro partito fosse davvero un centro sociale.
Il sistema politico italiano non è o non sarà in futuro tutto destra valoriale – anche eventualmente pragmatica – contro sinistra sociale, anche eventualmente con venature liberali. Non poteva, neppure un tempo, essere tutto Democrazia cristiana contro Partito comunista i, non può essere oggi il falso e ripetiamo fuorviante bipolarismo interpretato pro tempore da una post missina cresciuta pane e partito, e un’esponente della sinistra sociale nata contro il partito di cui ha la guida.
In Italia vi sono mille sfumature, ed è sconcertante che non vi siano alla guida del Paese quelle più europee. Ma non inventiamoci categorie a loro volta fuorvianti. Glucksmann è Glucksmann, e buon per i francesi che vi sia una sinistra moderata e moderna, ma perché prendersela in Italia con una categoria costruita ad hoc, quella dei liberalsocialisti?
Dove sono stati o sono oggi protagonisti i cosiddetti liberalsocialisti? Nella realtà dell’agone politico, si sono distinti se mai i socialisti liberali. C’è forse ancora esistente una corrente del Pd guidata da Enrico Morando, e nella fase nascente del Pd si è distinto anche in Parlamento, e con molti scritti importanti, il professor Michele Salvati. Ma, nella tradizionale casa liberale, e neppure nel Pri, si trovano tracce così rilevanti di liberalsocialisti militanti.
Nel Partito liberale italiano ci fu la breve stagione del liblab, ma sanava una frattura storica (Turati-Giolitti) in un contesto contingente che aprì le porte al pentapartito, poi quadripartito, molto per il fastidio lamalfiano a proposito di un privilegiato dialogo tra alcuni socialisti e liberali.
Ma qui non c’entra niente. Più correttamente, si potrebbe forse parlare di liberali di sinistra che hanno ovviamente piena dignità, fin dai tempi di Zanardelli, per non dire della frase con cui Valerio Zanone si insediò alla segreteria del Pli nel 1976 collocandolo a sinistra della Dc con scandalo dei minoritari liberali di destra che erano stati peraltro legittimamente alla guida del partito dopo le turbolenze radicali.
Con Giovanni Malagodi che governava sornione teorizzando una libertà nuova per molti versi profetica e che sarebbe oggi da rileggere, che non esitò a prendere scandalosamente le distanze da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, o ad avere un battibecco pubblico con Jacques Chirac («Nous le liberaux, vous les conservateurs»). Ma è storia passata, non serve per scegliere una via liberale al Terzo Polo basata addirittura sul diniego del liberalsocialismo.
Nell’ultimo capitolo del suo esamerone, Giannino fa invece molto bene a tracciare con concretezza la strada di una ricostruzione dal basso del fu Terzo Polo, in chiave liberale senza più l’inutile diaspora di mille sigle. Parla di un comitato promotore, di primarie, di congresso aperto. Un metodo che tutte le organizzazioni del centro, a cominciare dalle più grandi (Iv e Azione) dovrebbero seguire, se la lezione dei fatti sulla disunione ha significato qualcosa. Facciano pure i loro congressi, magari Iv promuova un liberale autentico come Luigi Marattin, ma l’ottica dovrà essere della collaborazione tra tutti.
Decidendosi a chiamare con il suo nome – liberale – questo soggetto che Renzi e soprattutto Calenda hanno insistito nel denominare usando molteplici sostantivi tutti faticosi (popolare, repubblicano, radicale, democratico e chissà cos’altro ancora) confondendo le idee a molti. Il primo obiettivo, in termini di tempo e di importanza, è insomma a nostro parere quello di un polo forte di una sua autonomia, distinto e (nella fase fondativa) distante dall’uno o dall’altro di quelli esistenti, che non meritano riabilitazioni.
Per far cosa? Non un centro immobile, di pura testimonianza (così è stato, a ben guardare, nel 2022 e anche nel 2024, errore politico). Ma possibilmente un centro originale perché diverso da sempre (non democristiano, per dire), pensante e condizionante, non solo in termini di voti parlamentari per far pendere prima o poi la bilancia dell’alternanza, ma come una specie di benchmarking, un’isola di pensiero europeo dentro un sistema in ritardo nella sua modernizzazione. E quindi capace di proporre, denunciare, tenere rapporti con le parti più vive della globalizzazione, in genere non rappresentate nello sciatto riformismo di Forza Italia o in quello contraddittorio del Pd.
Perché giustamente ciascuno deve fare il proprio mestiere e i due approssimativi poli oggi esistenti ne fanno due diversi. Per fortuna, perché vuol dire che c’è spazio e c’è vita per 1,6 milioni di elettori e tanti altri che potranno prendere coraggio.